Intrecciatasi nel corso del tempo alla società dei consumi, la democrazia sembra essere diventata una noiosa abitudine: la corruzione è un malcostume che non solleva grande preoccupazione e c’è poca passione per la vita politica. Proprio questa assuefazione fa sì che certe libertà siano date per scontate, e ciascuno possa programmare la sua vita senza doversi far carico delle condizioni di libertà. E quando ciò accade, il potere della critica, da sempre sentinella contro ogni prepotenza politica, è messa in pericolo a partire dal modello educativo che viene offerto.

Il fatto che l’educazione pubblica sia sempre meno orientata alla creatività, all’arte dell’argomentazione, al pensiero critico, base delle forme civili di convivenza libera, costituisce un pericolo indiretto per le fondamenta stesse della democrazia. Quest’ultima presuppone persone dotate di capacità critica, creative, consapevoli dei propri diritti e capaci di fare le scelte migliori per se stesse e per il bene collettivo.
Non è un caso che il progressivo venir meno nella scuola pubblica di tali peculiarità sia sempre più collegato al modo di percepire la cultura. Da sempre la sua ragion d’essere è quella di dare delle risposte alle domande fondamentali dell’uomo. L’arte, la storia, la letteratura, la filosofia sono tutte espressioni dello spirito che si manifestano attraverso gli usi e i costumi di un popolo e allo stesso tempo sono modi per dare risposte a questi interrogativi profondi. Qualcosa nella nostra epoca è cambiato: la gente sembra non avere più bisogno di risposte fondative. «Oggi – dice lo scrittore Mario Vargas Llosa in La civiltà dello spettacolo – la cultura è esente da una simile responsabilità, visto che l’abbiamo trasformata in un qualcosa di molto più superficiale e volubile: una forma di divertimento per il grande pubblico o un gioco retorico, esoterico e oscuro per gruppuscoli saccenti di accademici e intellettuali alla società nel suo insieme» . Più che uno strumento capace di mettere in crisi le coscienze la cultura sembra essere «un meccanismo che ci permette di ignorare le questioni problematiche, di distrarci dalle cose serie, immergendoci in un momentaneo “paradiso artificiale”, quasi un succedaneo di un tiro di Marijuana o di coca, ossia, una piccola vacanza di irrealtà» .
Altri studiosi, come il teologo protestante Hahne, convengono sul fatto che il Sessantotto, in estrema sintesi, abbia lasciato in eredità una società che ha barattato i propri valori fondativi, le proprie convinzioni con quella che è stata chiamata la “società del divertimento”, un sistema in cui tutti hanno il dovere di essere felici, dove l’abbondanza è garantita e dove l’unica responsabilità è quella di vivere in allegria.
Negli anni successivi alle contestazioni sessantottine – le prime a non aver conosciuto gli stenti della guerra – la libertà dei costumi e lo spazio crescente riservato al tempo libero sono state uno straordinario stimolo per il moltiplicarsi delle industrie del divertimento, promosse dalla pubblicità, madre e maestra magica del divertimento. Abbiamo associato la cultura all’intrattenimento, una sorta di paradiso artificiale attraverso cui è possibile evadere dalla realtà.
Le cattedrali del consumo sembrano i luoghi dove si esercita la nuova religiosità postmoderna con riti e culti propri; sono diventati i nuovi luoghi di pellegrinaggio come direbbe George Ritzer capaci di regalare quella salute o quel relax agli spiriti che sembravano essere stati negati per troppi secoli. Luoghi che l’antropologo Marc Augé definì anni fa, in una espressione poi riveduta e corretta, “non-luoghi”, e Zygmunt Bauman “luoghi senza luogo”.
Sono stati inventati allo scopo di generare un effetto simile a quello di un incantesimo.
Al fine di attirare masse sempre più ampie di consumatori, queste cattedrali del consumo avvertono l’esigenza di offrire, o almeno danno l’impressione di offrire, un numero sempre maggiore di scenari magici, fantastici e incantati in cui fare gli acquisti, a volte provocando in modo del tutto intenzionale questa magia, mentre in altri casi essa è il risultato di una serie di sviluppi in gran parte imprevedibili .
Tale fuga è stata sempre una delle grandi ambizioni dell’uomo, ben descritta da filosofi come Blaise Pascal quando parla del divertissement, inteso da lui nel senso originale di deviazione e allontanamento (dal latino devertere, ovvero deviare, allontanarsi ). È stata anche, fin dal principio, una delle funzioni principali della letteratura.
Naturalmente non si tratta di demonizzare parte della letteratura, che comprende al suo interno veri e propri talenti, ma è anche vero che la cultura contemporanea chiaramente scoraggia quelle opere che chiedono al lettore una intensa concentrazione intellettuale.
Così diventa sempre più difficile che si leggano autori come Borges o Rilke, capaci di avventurarsi nel profondo della psiche umana e scandagliarne le contraddizioni. Ciò vale anche per l’infinita mole di informazione che passa attraverso internet e i social. La democratizzazione del sapere ha creato l’illusione di poter avere cultura a basso costo, senza fatica e impegno. La scuola, attraverso lo studio della letteratura, dovrebbe scendere più in profondità e perfino andare controcorrente rispetto alla tendenza dominante.
In questa avventura «lo spirito del romanzo è lo spirito della complessità» come diceva Milan Kundera. Che prenda in mano Kafka o Tolstoj, Cervantes o Dostoevskij, al lettore non sfugge la verità che la vicenda umana è molto più complicata di quanto egli possa comprendere. Il romanzo in tal modo diventa portatore di domande infinite sulla solitudine, sul male e sul dolore, dell’eterna possibilità di porsi questioni di senso circa il proprio stare al mondo. Pur sapendo che spesso i personaggi dei romanzi vanno oltre il processo storico: le peregrinazioni di K. nel Processo o il delitto di Raskolnikov in Delitto e castigo non hanno avuto davvero luogo, eppure ci svelano moltissimo su quanto l’uomo è capace di fare: il romanzo non indaga la storia, ma l’esistente.
About The Author: Giovanni Capurso
E' docente di Filosofia, giornalista e scrittore. Ha pubblicato i romanzi di formazione "Nessun giorno è l’ultimo" (Curcio), "La vita dei pesci"(Manni) e "Il sentiero dei figli orfani"(Alter ego).
Scrive regolarmente per numerosi periodici e blog.
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