Ad Aristotele dobbiamo la definizione di etica come scienza che studia l’azione umana.
L’etica, insieme con la politica, costituisce l’ambito delle scienze pratiche, quelle che studiano le norme delle azioni. Aristotele innova etica e politica: in entrambi i campi egli non guarda tanto a un modello ideale di virtù e di pólis, ma analizza i criteri alla base del comportamento.

Non fa dell’etica una scienza rigorosa basata su una misura assoluta (quella costituita dalla realtà delle Idee, in particolare dell’idea platonica del Bene), ma una riflessione che ha per oggetto una varietà di situazioni ed esperienze nelle quali occorre di volta in volta scegliere la condotta più opportuna.

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La felicità

Nelle ricerche di filosofia pratica Aristotele osserva che tutte le azioni degli uomini hanno come fine un bene. Se la maggior parte dei beni viene cercata in vista del conseguimento di altri beni, deve però esistere un bene ricercato per se stesso, alla portata di tutti, un bene pratico.

Per Aristotele, il bene supremo cui l’uomo può aspirare è la felicità (eudaimonìa). Poiché il bene dell’individuo e quello della città sono intrecciati, essi costituiscono oggetto della politica e ad essa spetta stabilire cosa sia la felicità e come conseguirla, in quanto le altre discipline come la retorica, l’economia, nella concreta esperienza della vita cittadina appaiono subordinate alla politica.

Vi è poi un’altra ragione: per Aristotele il bene “è desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e più divino se riguarda un popolo e le città” (Etica Nicomachea, I, 2).

La visione aristotelica dell’uomo è quindi di animale politico o sociale e il bene umano è impensabile al di fuori della pólis. Da una parte chiarisce che cosa sia la felicità e come possa essere conseguita dal singolo (argomento trattato nello scritto più importante, l’Etica Nicomachea), dall’altra studia le diverse forme nelle quali si è sviluppata la società umana (famiglia, tribù, pólis) e le istituzioni, le leggi e le consuetudini più adatte a favorire il conseguimento della felicità da parte di tutti i cittadini (trattate dal filosofo negli otto libri della Politica).

Anche se la maggior parte degli uomini sono concordi nell’affermare che il bene supremo, pratico, sia la felicità, vi sono differenti modi di intenderla: per alcuni può essere il piacere dei sensi, aspetto però comune anche agli animali; per altri è la ricchezza, un bene che effettivamente si persegue in vista di qualcos’altro, per altri ancora è l’onore legato comunque ad un riconoscimento esterno.

La felicità invece deve essere qualcosa di autosufficiente e perfetto e il bene pratico per l’uomo consisterà nel possesso e nell’esercizio di attività connesse all’impiego della ragione, la facoltà propria dell’uomo.

Esercitandosi in tale attività a livelli di eccellenza si arriverà a possedere la virtù (aretè).

Le virtù dianoetiche ed etiche

Aristotele distingue due classi di virtù: le virtù dianoetiche e le virtù etiche.

Le prime, in particolare sapienza e saggezza, riguardano l’esercizio della sola ragione. La saggezza è la facoltà che individua i mezzi più idonei a perseguire il fine virtuoso. È la disposizione della ragione mediante cui è possibile valutare con consapevolezza e poi decidere quale sia il giusto mezzo, il più consono alle caratteristiche concrete dell’individuo e della situazione.

Le virtù etiche riguardano invece l’azione regolatrice che la ragione deve svolgere sulla parte irrazionale dell’anima visto che l’uomo è sospinto anche dalle emozioni e dai desideri.

Come possedere la virtù etica?

Essendo una disposizione virtuosa del carattere che si attiva attraverso l’esercizio di azioni pratiche non è patrimonio innato degli aristocratici ma, poiché si identifica con la conoscenza, si può acquisire con l’insegnamento teorico supportato dalla pratica, appunto virtuosa, anche guardando ad un modello di perfezione in un certo ambito.

Nella visione di Aristotele è possibile evidenziare un passo avanti rispetto all’intellettualismo etico e notare il ruolo nuovo attribuito alla volontà: la conoscenza del fine buono non è più condizione sufficiente perché si compia un’azione virtuosa e si chiede anche il concorso della volontà. Se non siamo animati dalla volontà di agire in vista del raggiungimento di un bene, anche se di volta in volta sappiamo in cosa esso consiste, non potremmo conseguirlo.

Aristotele afferma che provare desiderio e volere sono funzioni della facoltà desiderativa e quindi propri della natura umana ma affinché diventino virtù si devono conformare a una regola imposta dalla ragione. E la regola dell’azione è il giusto mezzo, il medio tra due estremi, non definito in astratto ma di volta in volta in rapporto a chi compie l’azione.

In Aristotele, la vita contemplativa si afferma come modello di esistenza superiore a quello della vita attiva. È la vita del filosofo a esercitare e a sviluppare la più alta funzione dell’anima, l’intelligenza per se stessa, in piena indipendenza e autosufficienza realizzando così un piacere elevato e stabile.

La forma di vita più eccellente non è quella di chi ricerca i piaceri o gli onori, ma quella che si basa essenzialmente sull’attività del pensiero, sulla sapienza.

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