Quali sono i problemi che inevitabilmente sorgono quando si vuole parlare della follia? E, soprattutto, con la follia?

Appare chiaro che il linguaggio ordinario risulta inefficace e totalmente altro rispetto a quello che, riduttivamente, chiamiamo malato. Esso, tuttavia, utilizza le nostre stesse parole, sebbene appaiano aver acquistato un significato altro, nascano ed abitino un fondo oscuro che solo lontanamente riusciamo a scorgere e conoscere; ci troviamo di fronte non solo ad una radicale destrutturazione del linguaggio, ma anche alla constatazione che, abbandonandoci e lasciandoci allo stesso tempo guidare, quelle parole ci fanno scoprire un altro mondo, nella sua diversità, a noi complementare.

La follia, che il pensiero occidentale ha ormai condannato ad una condizione di esilio dal proprio mondo, si presenta, di contro, come possibilità reale della situazione prettamente umana, costituendola, al pari di quanto altresì compie, tradizionalmente, la ragione.
La follia è dé-raison: l’altra faccia della ragione; raison e dé-raison vivono inscindibilmente sullo stesso piano (cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica). Questo resta a noi ancora piuttosto incomprensibile se continuiamo a stare dalla parte della ragione, ad ergere un muro per contenere e negare quello che c’è al di là di essa, che ci spaventa, ci fa soffrire, mette radicalmente in discussione la nostra esistenza. La follia diventerà, allora, realtà, una realtà integralmente significante di per sé, un’identità vera e propria senza alcun bisogno e dovere di riferirsi ad altro per acquistare un senso.

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All’interno di questo contesto, dunque, in che forme e che modalità si configura il rapporto tra il consulente filosofico e il consultante?

Si tratta di capire quanto la consulenza filosofica, nell’ambito di un Centro di Salute Mentale, possa realmente portare da una parte alla concretizzazione, da parte del consulente, di quel vocabolario filosofico che diventa lessico reale, chiave interpretativa di un’esistenza concreta, d’altra parte, per il consultante, si riveli come aiuto per comprendere se stesso e riflettere su aspetti della propria vita che da solo non era in grado di mettere in luce.
Infatti quando si tenta una spiegazione dei modi di stare al mondo di una persona malata, vi è il rischio di presentare semplicemente all’altro i suoi conflitti con le nostre parole e quindi di consegnargli un senso che è per noi, ma non per lui: “come potrebbe mai il paziente riconoscerlo come proprio nell’orizzonte di un mondo in cui egli stesso non esiste? Ciò che noi gli presentiamo è in realtà una semplice articolazione dei suoi conflitti.” (H. Maldiney, Pensare l’uomo e la follia)
Le sue parole, ancora una volta, non vengono lasciate sussistere di per sé, ma vengono consegnate al medico perché siano esse sintomo e segno di conflitti al soggetto inconoscibili; ecco, quindi, che tali parole perdono il loro statuto esistenziale, perché non sono espressione della vita interiore del soggetto ma rinviano a conflitti che quest’ultimo non riesce a percepire.

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Il consulente filosofico, attraverso una relazione basata sul dialogo, può aiutare i propri consultanti a liberarsi dalle catene che tengono imbrigliati i propri pensieri, non indicando la via da seguire come fosse una ricetta medica semplicemente da rispettare, ma soffermandosi a comprendere il significato di quei nodi e di quei fili, in un percorso comune, lungo il quale consulente e consultante avanzano insieme.
Il dialogo che Gadamer definisce infinito, infatti, si compie quando trasforma entrambi gli interlocutori, ovvero quando l’io muta attraverso il tu e viceversa, in un gioco incessante, in cui i nuovi orizzonti aperti attraverso il perpetuarsi del movimento di domanda e risposta permettono al dialogo di continuare, realizzando in questo modo un’autentica comunicazione di senso.
In questa struttura, il consulente filosofico può arricchire di contenuti e di significato, parole che ormai si alimentano solo di se stesse, ovvero non riescono più a prendere respiro e vita dal mondo esterno, parole che si accartocciano su se stesse, che hanno disimparato ad aprirsi al mondo, e getta terra fertile attorno ad esse, affinchè le loro radici possano nutrirsi di nuove idee, significati e scenari.

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