“L’aspetto probabilmente più sorprendente e sconcertante della fuga dalla realtà è l’abitudine a trattare i fatti come se fossero mere opinioni. Tutti i fatti possono essere cambiati e tutte le menzogne rese vere… ciò in cui ci si imbatte non è tanto l’indottrinamento, quanto l’incapacità o l’indisponibilità a distinguere tra fatti e
opinioni.”

Hannah Arendt

Che cos’è il male? Possiamo rinchiudere questo concetto in una definizione univoca?
Hannah Arendt ci ha lasciato un contributo fondamentale, poiché attraverso il suo pensiero influenzato dai tragici eventi della seconda Guerra Mondiale, ridefinisce completamente il concetto di ‘male’.

Hannah Arendt fu una tra le più importanti figure femminili del ‘900 che si sia occupata di filosofia politica.
La sua ricerca filosofica è volta alla pratica dell’agire, in particolare dell’agire politico, e alla comprensione del fenomeno del totalitarismo.

È da subito evidente come il suo pensiero si sia andato formando coerentemente con la sua biografia personale, in cui è stata fondamentale l’esperienza dell’esule e il senso di spaesamento precedente alla nuova vita negli USA, dopo esser fuggita prima dalla Germania e successivamente anche dalla Francia, a causa del regime nazista.

Nacque nel 1906 ad Hannover, è tedesca di nascita e proveniente da famiglia ebrea.
Studia filosofia sin da giovane e tra i suoi maestri ci sarà anche Martin Heidegger, col quale ebbe anche una relazione sentimentale, fatto curioso in quanto è stato un esplicito simpatizzante del nazismo.
Quando infatti la cosa divenne evidente, la loro storia finì, lei si trasferì dapprima in Francia, ma allo scoppio della seconda Guerra Mondiale nel ’39 emigrò definitivamente negli Stati Uniti, di cui divenne in seguito cittadina.

Tra gli anni ’50 e ’60 scrisse la maggior parte delle sue opere, le più importanti delle quali sono tre: Le origini del Totalitarismo, Vita Activa e poi nel ’63 La banalità del male, incentrato sul processo ad Adolf Eichmann.
Si tratta di un reportage giornalistico per la rivista americana Newyorker, che le chiese di seguire a Gerusalemme il celebre processo ad Eichmann, un militare e funzionario nazista di livello medio che alla fine della guerra scappò dall’ Europa per rifugiarsi in Argentina, dove si rifece una vita per molto tempo.

Arendt e il processo ad Eichmann

Dopo circa 15 anni, i servizi segreti israeliani del Mossad scoprirono che a Buenos Aires si nascondeva questo particolare immigrato, che viveva sotto falso nome. Non esistendo un trattato d’estradizione con Israele, fu rapito e portato in Israele, dove fu processato per genocidio e crimini contro l’umanità e il popolo di Israele.

Era un membro delle SS e organizzava i treni che trasportavano gli ebrei dai ghetti ai campi di concentramento, e a causa del suo lavoro migliaia di ebrei furono deportati per il soddisfacimento della cosiddetta “soluzione finale”.

Hannah Arendt seguì attivamente tutto il processo.

Ciò che la lasciò esterrefatta, fu che Eichmann non sembrava assolutamente un pazzo né marcatamente antisemita.
Era un uomo molto semplice. Sembrava difendersi senza davvero capire a fondo la portata delle accuse rivolte, dicendo anzi di aver alleviato le sofferenze degli ebrei coi quali aveva avuto a che fare.

E soprattutto continuava a ripetere di aver solo obbedito agli ordini, e che se aveva agito in maniera sbagliata, questo era da imputare non a lui ma alle leggi vigenti in quel momento nel suo paese.

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In uno dei suoi scritti dal titolo Colpa organizzata e responsabilità universale, la Arendt, a proposito di un altro gerarca nazista, sottolinea:

“Himmler è diverso dagli altri gerarchi del nazismo. Quando Himmler divenne capo delle S.S., le S.S. contavano 200 persone. La sua attività precedente era allevare polli; era un uomo estremamente timido, estremamente equilibrato e non era un uomo di mondo. Perché Hitler scelse Himmler per dirigere le S.S.? Hitler aveva fiuto e aveva capito che Himmler rappresentava il tedesco medio che lo appoggiava. Himmler è il risultato della decomposizione della società di classe. È un uomo con tutti gli attributi di un buon pater familias.
Himmler è uno che cura il proprio interesse personale, che scambia ciò che caratterizza la sua piatta esistenza e i suoi ideali. Himmler è quindi un uomo svuotato della sua dimensione fondamentale, e quando questo avviene, non si è più responsabili delle proprie azioni.”

Scambiare i propri valori (in questo caso quelli nazisti) con la propria esistenza significa in sostanza non riuscire più a scindere tra l’ideale che si è interiorizzato ed una dimensione critica personale, di dubbio o messa in discussione di ciò che viene detto dall’esterno.

La dimensione interiore, intima, viene annullata in nome dell’ideologia. Interiorizzata totalmente la dimensione ideologica, qualsiasi cosa venga ordinata da chi ha istituzionalizzato quell’ ideologia, verrà eseguita delegando a quell’ autorità anche la responsabilità dell’azione.

A questo proposito, aggiunge ancora:

“Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto oppure il comunista convinto, ma le persone per le quali non c’è più differenza tra realtà e finzione, tra il vero e il falso.”

Il linguaggio dei totalitarismi

Il significato delle parole nei totalitarismi viene manipolato e modificato.

La lingua utilizzata dal nazismo è arida ed estremamente ripetitiva, per permettere ai concetti chiave del regime di esser metabolizzati a fondo dal popolo tedesco.
Inoltre la burocratizzazione del linguaggio nazista ha finito per ridurre coloro che consideravano soggetti pericolosi a semplici numeri o codici, privandoli così della definizione stessa di esseri umani.
Furono privati quindi anche della possibilità di esser definiti “nemici”.

L’eliminazione di un numero, dunque, non deve comportare né problemi morali né tanto meno sensi di colpa.
Ogni pensiero, ogni idea o narrazione mentale che l’uomo svolge è linguistica, in quanto non è possibile pensare se non tramite una lingua specifica.

Di conseguenza, quando si interiorizza un linguaggio ideologizzato, a questo si legheranno anche le caratteristiche emotive che quella lingua vuole trasmettere. Coloro che parlano tale lingua diventeranno immagini riflesse di quel sistema ideologico.

Cos’è un’ideologia?

La categoria di ideologia è fondamentale per capire il totalitarismo, perchè è la logica di un’idea che viene presa come l’inconfutabile premessa da cui si fa derivare una serie di conseguenze che costruiscono una ragnatela di senso che va a sostituirsi alla realtà.

Nel caso del nazismo, perché questa ideologia ha avuto così successo? Perché così tante persone per bene sono diventati ingranaggi dello sterminio?
Arendt ipotizza che ci sono diversi elementi da tenere in considerazione.

Innanzitutto la società di massa: qui gli individui vivono in solitudine e non ci sono più le relazioni che si instauravano nelle società contadine. Tutto sembra vuoto di senso e ripetitivo per l’uomo industriale.
Ecco perchè le ideologie hanno una grande presa. Danno un senso alternativo alla realtà, essendo un comodo sostituto che copre l’assenza di senso e di grigiore quotidiano.

L’ideologia ha quindi il vantaggio di fornire una visione della realtà apparentemente molto più coerente e soddisfacente, e soprattutto risparmia la fatica di esprimere un giudizio critico o di problematizzare la realtà.

L’ebreo in questa prospettiva viene disumanizzato, e racchiuso in un unico grande stereotipo che lo identifica con un nemico da cui proteggersi.

La banalità del male

Mentre segue il processo Eichmann, Hannah Arendt pensa di aver svelato una parte di quel meccanismo che aveva tenuto insieme la macchina dello sterminio. Contrariamente alle sue aspettative, si trovò davanti un omino normale e spaurito, non un sadico gerarca nazista.

Da qui sviluppò l’idea della banalità del male. C’è infatti qualcosa di molto più inquietante in quell’omino rispetto a quello che sarebbe stato vedere lì in tribunale Hitler in persona.

Era appunto la sua banalità e la sua semplicità che spaventava, era la possibilità di esser paragonato alla massa che lo rendeva inquietante.
Quando gli venne chiesto se lui fosse al corrente di quello che era la logistica della deportazione europea, lui continuò instancabilmente a ripetere che aveva solo obbedito agli ordini.

Il processo era in ebraico e tutto veniva tradotto in simultanea in tedesco ad Eichmann.
Il giudice però fece una deroga e si permise di porre una domanda in tedesco ad Eichmann: gli chiese se avesse mai avuto un dubbio morale riguardo a quello che stava facendo, e lui rispose che gli sembrava di aver vissuto una specie di sdoppiamento della sua identità.

Affermò di aver rinunciato alla propria coscienza per rispettare la legge, altrimenti non avrebbe saputo cosa fare. Il giudice gli fa notare che avrebbe potuto pensare autonomamente, assumersi la responsabilità della gravità delle sue azioni e opporsi.
Eichmann diede una risposta agghiacciante, affermando che la propria coscienza non la si può regolare e determinare da soli.

E’ questo in sostanza il problema per la Arendt. Eichmann non era stupido, non era solo un passacarte o un burocrate.
Con la sua banalità rappresenta l’assenza di pensiero. Non è assenza di ragionamento, perchè per coordinare la logistica dello sterminio fu necessaria una grande intelligenza. Ma per pensiero la Arendt intende dialogo interiore, la riflessione che facciamo con noi stessi quando ci interroghiamo sul nostro agire morale, sui concetti di bene e male.

Eichmann non ha questo dialogo interiore. Non si chiede quali sono le conseguenze del suo agire. Obbedisce in maniera cieca.
Ha permesso all’ideologia totalitaria di privarlo di questo dialogo interiore e del senso di responsabilità (termine quest’ultimo che deriva dal latino respondere, cioè ‘rispondere di qualcosa, rendere conto delle proprie azioni e farsi carico delle loro conseguenze’).
Per la Arendt, Eichmann è privo di pensiero, cioè di una dimensione etica della coscienza che si traduce in un’ assenza di responsabilità.

Si tratta dell’incapacità di elaborare il significato del proprio agire. Per questo motivo Eichmann è banale.
Non c’è un male come principio alternativo al bene, non c’è nulla di premeditatamente malvagio. C’è un male come assenza, un vuoto di bene.

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Alcuni hanno accusato la Arendt di ingenuità, non avendo colto il fatto che l’intenzione di Eichmann nel corso del processo potrebbe esser stata proprio quella di apparire come un burocrate confuso e incompreso.

Ma in fondo cosa è più preoccupante? L’idea che il male sia configurabile come un’assenza di pensiero, oppure che sia qualcosa di profondamente meditato e costruito?
Secondo la Arendt è assai più terrificante la banalità, proprio perchè è ciò che potrebbe celarsi in ciascuno di noi e che potrebbe palesarsi con le giuste condizioni storiche e politiche.

L’esperimento sociale di Stanley Milgram

Diversi psicologi e sociologi dopo la conclusione del processo si sono interrogati circa le conclusioni di Hannah Arendt ed hanno concretizzato in un esperimento ciò che lei aveva ipotizzato circa il concetto di banalità e responsabilità.

Particolarmente significativo al riguardo è stato il famoso esperimento di Stanley Milgram, uno psicologo statunitense che trascorse la sua carriera di ricercatore e professore presso le università Yale e Harvard, per poi trasfe-rirsi alla City University di New York.

Egli si occupò proprio di analizzare le dinamiche psicologiche che si instaurano nei confronti dell’autorità e la domanda che si pose fu la seguente:

“Sappiamo riconoscere quando la nostra obbedienza all’autorità è frutto di una scelta consapevole o di una manipolazione?” 

Si tratta di un esperimento sociale condotto nel 1961, e lo scopo era verificare quale fosse il comportamento degli individui nella situazione in cui dovessero ricevere ordini in conflitto coi loro valori morali.

Il campione di volontari comprendeva uomini fra i 20 e i 50 anni di varia estrazione sociale. Dietro ricompensa, veniva chiesto loro di partecipare ad un esperimento sulla memoria e sugli effetti dell’apprendimento (solo successivamente fu detto loro quali fossero gli scopi del ricercatore).

All’inizio della prova lo sperimentatore, con un collaboratore complice, assegna i ruoli di “allievo” e di “insegnante” tramite un sorteggio truccato. Il soggetto dell’esperimento è sempre sorteggiato come insegnante, mentre il complice come allievo.
Lo scienziato separa poi i due soggetti ponendoli in due stanze diverse. Fa quindi posizionare l’insegnante di fronte ad un pannello di controllo di un generatore di corrente elettrica.

Il pannello ha interruttori a leva che trasmettono livelli tensione elettrica crescente, da lieve a potenzialmente mortale.

Svolgimento del test

Il ricercatore chiede all’insegnante/cavia ignaro, di porre una serie di domande all’allievo, ordinandogli di somministrare una scossa elettrica all’allievo ogni volta che questo sbaglia la risposta. Compito dell’insegnante sarà aumentare l’intensità della scossa a ogni errore dell’allievo.

L’allievo è legato ad una sedia elettrica collegata al generatore di corrente sottomano all’insegnante. Deve rispondere alle domande e fingere di avvertire dolore al progredire dell’intensità delle scosse, che in realtà non riceve mai.
L’allievo/attore deve gridare e supplicare l’insegnante di smettere fino a quanto non viene raggiunta la scarica più alta. Dopo di quella, non emetterà più alcun suono e fingerà di essere svenuto dal dolore.

Durante l’esperimento il ricercatore, che rappresenta la figura autoritaria, continua ad esortare il maestro (cioè la cavia) a somministrare le scariche elettriche. Il ricercatore misura infine il livello di obbedienza di ogni soggetto in base all’ultima leva elettrica usata prima di ribellarsi e rifiutarsi di somministrare ulteriori scariche.

Soltanto al termine dell’esperimento, il ricercatore informa i soggetti che le vittime erano attori e che le scosse erano finte.

I risultati dell’esperimento

I risultati lasciarono esterrefatto lo stesso Milgram e furono motivo di sconcerto anche per tutti gli scienziati suoi collaboratori.
La maggior parte dei soggetti arruolati, pur mostrando segni di disagio, obbedirono al ricercatore senza opporsi, somministrando scariche elettriche crescenti anche quando l’alunno implorava di smettere.

La constatazione finale di Milgram fu che queste persone, quando gli venne chiesto perchè avevano agito obbedendo, proprio come Eichmann, riferirono di essersi limitate a eseguire gli ordini del ricercatore e di non sentirsi responsabili delle proprie azioni.

Milgram mostrò quindi come una figura considerata autoritaria e legittimata ad esercitare il suo potere, può indurre molti individui ad un livello di obbedienza tale da indurli a ignorare la propria etica.

Di fronte a questa autorità, i soggetti non si sentono più liberi di decidere e si considerano semplici esecutori, sgravati da ogni responsabilità.

Perchè scompare il senso di responsabilità?

Milgram vede nella sensazione di non esser responsabili, la presenza di tre fattori:

1. La presenza di un’autorità ritenuta legittima
2. L’adesione ad un sistema di regole condivise e consolidate
3. La pressione sociale: disobbedire all’autorità significa perderne l’approvazione e i vantaggi che ne derivano

Quando degli individui accettano definitivamente uno schema di comportamento proposto dall’autorità “legittima”, possono arrivare a compiere un’azione distruttiva percependola come ragionevole e necessaria.

Per concludere, nell’esperimento di Milgram emerge quanto sia labile il limite tra i concetti di bene e male, che si confondono e mescolano a quelli di obbedienza e del rispetto delle regole in un’unica grande matassa pratica-mente impossibile da districare.

Sebbene siano passati quasi 60 anni, questo esperimento è ancora in grado di turbare e disturbarci, poiché continua implicitamente a domandarci cosa potremmo diventare se si dovessero presentare determinate circostanze.

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