Anna Poma è laureata in filosofia, in psicologia e specializzata in Psicoterapia della Gestalt. Da molti anni è impegnata in diverse associazioni per la tutela dei diritti delle persone con disturbo psichico, dal Forum Veneto della Salute Mentale al Comitato Stopopg che ha contribuito fortemente alla chiusura dei manicomi giudiziari e continua a lavorare per contrastarne la sopravvivenza e la riproduzione. Con la cooperativa Con-Tatto, dal 2009 organizza ed è curatrice del Festival dei Matti che si tiene ogni anno a Venezia e nel 2019 giungerà alla sua decima edizione.

Anna Poma

1. Lei è laureata in Filosofia e in Psicologia con specializzazione in Psicoterapia della Gestalt; ci racconta com’è nata la passione verso queste due discipline e quale può essere il loro punto d’incontro?

La passione per la filosofia mi è venuta facendo l’università a Venezia, dove ho avuto la fortuna di incontrare  Salvatore Natoli, Umberto Galimberti, Emanuele Severino, maestri di un modo di ”pensare il pensiero” che avrebbe completamente cambiato la mia percezione del mondo, il mio modo di studiare, l’idea di quello che possiamo fare o non fare con quello che ci è dato. Quando dopo alcuni anni di studio e di approfondimento, ho incontrato la fenomenologia, Karl Jaspers, e poi Michel Foucault (su cui ho lavorato per la mia tesi di laurea) il tema della follia ha cominciato a calamitare ogni altro tema e a ridefinire le mie traiettorie formative e professionali. L’incontro con le discipline “psi” arriva dopo quindi, ma forse non si è mai trasformato in passione mentre è divenuta una vera passione quella per le soggettività che quei saperi tentano di afferrare sempre senza successo. La psicoanalisi prima, la psicologia poi e infine la psicoterapia della Gestalt (su cui mi sono specializzata) alla luce della mia formazione di partenza apparivano trasparenti nelle loro aporie epistemologiche  mettendomi nelle condizioni di poter maneggiare con prudenza le lenti di quei saperi e le pratiche che ne derivano. Per la verità la psicoterapia della Gestalt rappresenta abbastanza un’eccezione su questo fronte perché viene da un impasto virtuoso di psicologia della Gestalt, psicoanalisi, fenomenologia e si interroga su questioni cruciali quali il rapporto sapere/potere, l’ipostatizzazione di molti concetti e parole e sulla grammatica che le ordina. Ma decisivo per quello che sarebbe accaduto dopo è stato per me conoscere il pensiero e il lavoro di Franco Basaglia, di Franca Ongaro Basaglia e del ricchissimo movimento antiistituzionale che a partire dagli anni sessanta ha dato vita alla più straordinaria rivoluzione di cui sia stato capace il nostro paese. E’ stato questo incontro a insegnarmi ad attraversare il mondo “psi” con l’allerta necessaria a scongiurare la pretesa, che abita molti di quelle discipline e delle pratiche che vi si ispirano, di oggettivare e colonizzare la vita delle persone e a rendere per me irrinunciabile un’ attenzione alle implicazioni etiche e politiche di queste questioni. La filosofia continua ad essere  per me questo sforzo di esercizio critico che ha trovato un altro importante puntello nell’incontro con PierAldo Rovatti, conosciuto meglio più di recente, anche per via della mia frequentazione della Scuola di Filosofia di Trieste, emanazione del Laboratorio di Filosofia Contemporanea diretta dallo stesso Rovatti.

2. Lei è ideatrice e fondatrice del festival dei Matti, che si svolge ogni anno nella città di Venezia. Dal 2009 ad oggi sono stati ospiti Massimo Cirri, Umberto Galimberti, Peppe Dell’Acqua, Fabrizio Gifuni e Alberta Basaglia solo per citarne alcuni. Da cos’è nato questo progetto e quali sono gli intenti del festival?

Il progetto del Festival dei Matti nasce, dopo alcuni anni di lavoro con la cooperativa Con-Tatto (che abbiamo fondato nel 2002) con l’dea di riportare nel dibattito pubblico, e fuori dal circuito degli addetti ai lavori, il tema del rapporto tra normalità e follia, tra salute e sofferenza mentale: pensiamo infatti che solo rimettendo mano a queste nozioni, risocializzandole, si possano allentare le barriere materiali e immateriali che confinano, schiacciano e troppo spesso intrappolano per sempre chi attraversa il dolore mentale. Abbiamo voluto realizzare un laboratorio culturale in cui i diversi linguaggi che si misurano con questo tema trovano ospitalità e visibilità in una cornice riconoscibile, coinvolgendo in modo significativo anche le persone che vivono l’esperienza del disagio psichico. Ci sforziamo, in ogni edizione anche con precise scelte tematiche, di comprendere se possa esserci una prossimità virtuosa tra dolore e creatività, smarrimento e dissidenza, diversità e comunanza. Il Festival assume che l’esser matti riguarda ciascuno di noi (come condizione ineludibile, come possibilità, come crisi, come svolta, come appello) e che dovremmo guardarci dal delegare ai tecnici la verità e l’ultima parola su questa esperienza. Un’esperienza che dentro i circuito degli addetti ai lavori è ‘trattata’ solo per essere corretta, cancellata, imbavagliata e mai per interrogare tutti noi sul nostro modo di vivere, sulla qualità delle nostre relazioni , sulla nostra organizzazione sociale, sulle storture, i limiti, le contraddizioni che ci abitano e di cui vorremmo soltanto fare a meno. Il Festival che tra poco giungerà alla sua decima edizione, sta progressivamente dilatandosi con l’obiettivo di divenire in un’impresa culturale qualificata e permanente che coinvolga in esperienze di formazione e lavoro anche chi soffre o ha sofferto di un disturbo mentale.

3. La follia tutt’oggi è una parola che viene spesso accompagnata a paura, crimine, reclusione. Nell’immaginario collettivo comune il matto è identificato ancora come una persona pericolosa; se lei dovesse spiegare ad un bambino chi sono “i matti” quali parole o immagini userebbe?

Penso che ci si debba chiedere in cosa consista questo “accompagnamento”. Ci sono nessi percepiti che non corrispondono affatto a nessi fattuali. Ad esempio quando si parla di pericolosità (questione molto complessa alla quale Aut Aut ha dedicato di recente due interessantissimi numeri (370/2016 e 373/2017)), è ben poco noto il fatto che i cosidetti “normali” delinquono molto più frequentemente delle persone con disturbo mentale, così come non sono conosciuti i meccanismi che scattano quando abbiamo a che fare con reati compiuti da persone ritenute “folli”. Queste persone, infatti, sono ancora soggette, loro malgrado, nonostante la legge 180 e il nostro dettato costituzionale, ad un vero statuto speciale in ragione del codice Rocco, che risale al fascismo e che è ancora in vigore. Ad esempio, per chi non sa nulla di queste  faccende e non si è interrogato sulle loro implicazioni, l’attribuzione dell’ incapacità di intendere e volere” (nozione discutibilissima) sembra costituire una tutela per chi ha compiuto un reato e ha una diagnosi psichiatrica perché lo proscioglie dalla responsabilità dello stesso. Si tratta però di un clamoroso abbaglio non foss’altro perché il proscioglimento  contemporaneamente consegna la persona ad un circuito sanitario reclusivo (prima OPG ora Rems) che rende impraticabile la cura (non può esserci cura in condizioni di cattività) e spesso irrevocabile la pena di un controllo a tempo indeterminato sulla propria vita. Anche se il reato connesso è bagatellare.
Il Festival, che ha tra i suoi numerosi partner anche il Comitato Stopopg di cui alcuni di noi fanno parte, dedica sempre una sezione all’analisi e alla critica di questi dispositivi, oggi solo parzialmente riconvertiti: nonostante un grandissimo lavoro di smontaggio anche legislativo del Comitato che ha condotto all’emanazione della legge 81 (la legge che ha messo fuori legge i manicomi criminali).
Il nesso tra follia e pericolosità, che la 180 ha reciso nettamente, continua a circolare indisturbato in ragione della permanenza di quel dispositivi ma anche perché le pratiche psichiatriche più diffuse (che ben poco hanno a che fare con la salute mentale) continuano a riprodurlo, insieme al tabù della follia e alla stigmatizzazione delle persone. Reparti chiusi, comunità e cliniche che ricorrono sistematicamente alla contenzione e alla violazione dei diritti, luoghi separati, sciatteria, povertà, abusi farmacologici che comunicano alla cittadinanza esattamente quello che sulla carta dichiarano di voler contrastare. Far emergere questi paradossi  e contrastarli è uno degli obiettivi del festival.
Se comunque dovessi spiegare a un bambino che cos’è la follia  penso che gli parlerei di come può succedere di perdere “il mondo” quando si è tanto coinvolti in qualcosa: un gioco, un dispiacere, un bisogno, un sogno. E come sia facile in certe situazione non venir capiti e non capire più gli altri. Gli direi che se chi ci sta intorno si spaventa e non ci sveglia o si allontana e ci attacca, e se questa condizione si prolunga nel  tempo può succedere di impazzire, cioè di restare intrappolati dentro noi stessi e dentro quella perdita. Ma gli direi anche che qualcuno può sempre fare la fatica di venirci a prendere  quando siamo laggiù e che se non si stufa troppo in fretta può sempre riuscirci. I pericoli del mondo spesso non c’entrano nulla con chi si perde, mentre c’entrano molto con chi sta appieno dentro la normalità, con chi è ben determinato, in nome del proprio interesse, bisogno, privilegio, a mettere in pericolo la vita, il benessere, i diritti degli altri.

4. La filosofia, nel suo significato originario dato dai greci, era considerata lo strumento essenziale per la cura dell’anima. Secondo lei la filosofia può, ancora oggi, essere utile come cura della psiche nella sua accezione più vasta del termine?

La filosofia, come la musica, la letteratura, l’arte secondo me curano per il solo fatto stesso di esistere. Sono invece piuttosto scettica quando vengono piegate a strumento di cura. L’arteterapia, la musicoterapia e dunque un certo modo di intendere la consulenza filosofica mi paiono depotenziare questi saperi e queste esperienze rendendoli scialbi, goffi e talvolta persino un po’ caricaturali. Mi spiego: secondo me studiare e fare musica, occuparsi e fare arte, studiare e praticare la filosofia sono esperienze talmente potenti e dirompenti da non avere bisogno d’altro per alleviare e trasformare il male di vivere, spostarlo, dargli voce, contaminarlo e talvolta scioglierlo. Ma se una persona sta male, è impantanata dentro se stessa o dentro le sue relazioni e i suoi legami sociali, non le si può prescrivere o somministrare l’arte, la filosofia o la musica secondo strategie e metodologie preordinate come fanno i medici prescrivendo psicofarmaci. Purtroppo però questo è quello che accade in molti luoghi deputati alla cura, dove si fanno rientrare nella riabilitazione (che in moltissimi luoghi continua ad essere considerata ancillare rispetto alla cura medica, responsabile peraltro di sistematiche inabilitazioni e desoggettivizzazioni delle persone) laboratori con queste impostazione . Quando cioè queste discipline decidono di trasformarsi in pratiche di cura – spesso ignorando l’enorme complessità di ciò che diciamo “cura”, del confronto con l’esperienza emotiva, affettiva, cognitiva, corporea, esistenziale, relazionale, sociale delle persone – la mia sensazione è che si trasformino in tecniche piuttosto povere e banali che perdono la straordinaria potenza delle discipline originarie.
Non escludo che alcuni maestri possano costruire a partire dalla filosofia rapporti con alcune persone che ne traggano beneficio, acquisendo lucidità, capacità critica ampliando i propri orizzonti mentali ma per lo più ho avuto modo di rendermi conto che la consulenza filosofica finisce per trasformarsi, per come veniva esercitata, in una versione più sofisticata della psicoterapia cognitivista, sulla quale peraltro nutro parecchie perplessità.

5. Follia è creatività, immaginazione, stupore e irrazionalità, è la componente dionisiaca dell’essere, per tornare agli antichi greci. Dioniso, e quindi la follia, possono essere accolti nella nostra esistenza senza timore?

Secondo me il timore di fare i conti con quello che non riusciamo a governare di noi stessi con la differenza che ci abita e che ci abita in ogni caso e ci domina per giunta se lo misconosciamo, e il timore di coloro che percepiamo come diversi da noi (anche se la singolarità che ciascuno incarna non è riducibile nonostante l’abbaglio della “normalità”) sono due facce della stessa medaglia. Siamo addestrati da subito a diffidare, temere, tremare per tutto ciò che esorbita da una normalità che si fa sempre più stretta, angusta, risibile e che a ben guardare, se sapessimo e volessimo farlo, taglierebbe fuori ognuno di noi. Se ci prendessimo un po’ più sul serio, rischieremmo meno di essere governati dalle iposcrisie e dai paradossi della malafede, l’angoscia, l’ansia e il dolore diventerebbero anche traiettorie di rimpatrio, non solo di dannazione e di perdita del mondo condiviso. Insomma saremmo tutti un po’ più matti ma proprio per questo potremmo forse rischiare di avere un mondo migliore e di scorgere nelle pieghe dell’esistenza, nelle nostre ombre e latitanze, gli indizi per vivere meglio.

6. Per terminare l’intervista facciamo sempre una domanda a i nostri ospiti: quale “pensiero filosofico” si sente di esprimere ai lettori del nostro blog?

Cosa intendete per “pensiero filosofico”?

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