Duccio Demetrio è uno dei più noti pedagogisti italiani, è stato professore di Teoria dell’educazione e di Teorie e pratiche della narrazione presso l’Università degli studi di Milano – Bicocca. Ora è direttore scientifico della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, da lui fondata nel 1998, e dell’Accademia del Silenzio.
E’ autore di numerosi volumi tra i quali ricordiamo La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Filosofia del camminare. Esercizi di meditazione mediterranea, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Autoanalisi per non pazienti. Inquietudine e scrittura di sé

1. Prof. Demetrio, per decenni si è occupato della scrittura nell’ambito clinico. In che modo può essere utile nella cura di sé?

Mi sono occupato e mi occupo (da filosofo) però di scrittura autobiografica in un’accezione non terapeutica o medica della clinica, ma in relazione alle importanti ricerche sulla filosofia antica introdotte qualche decennio fa da filosofi quali Michel Foucault e Pierre Hadot. Laddove, per clinica, si intende un metodo di educazione rivolto ad adulti attuato attraverso esercizi di scrittura personale di carattere per lo più memorialistico, quando tali proposte siano di conseguenza volte a migliorare la conoscenza, l’interpretazione e la consapevolezza di sé per finalità di carattere morale: non psichiche, dunque, né di natura fisiologica. In tal senso, la scrittura si dimostra un valido strumento per chi sia disponibile ad intraprendere un percorso di rivisitazione retrospettiva della propria esistenza.

2. Quindi la scrittura è un mezzo per tirar fuori delle risposte?

Il termine, come è noto, da kliné (giaciglio) sta ad indicare un oggetto/soggetto al quale prestare attenzione, di cui occuparsi e che esige cure che possono prevedere anche quelle mediche ma non ne escludono altre. La scrittura però non è metaforicamente un bisturi, quanto piuttosto un forcipe maieutico: ci aiuta a trar fuori da noi i problemi, a portarli alla luce, per esaminarli e dar loro parole, narrazioni, ricordi. Si tratta di un approccio autoanalitico di carattere “esistenziale”: diagnostico, prognostico, anche terapeutico – come sostenevano ancora gli antichi – volto alla cura intellettuale e filosofica del proprio animo; in una sorta di “ricoltivazione di sé”, avendo come guida lo scrivere e la volontà di non cancellare le proprie memorie, anche le più dolorose. La scrittura autobiografica infatti si dedica prioritariamente al passato, ma con uno sguardo proteso in avanti. Non cerca maestri, consulenti, figure alle quali affidare e delegare la propria cura.
È un viaggio in solitudine che si ispira alle tradizioni spirituali e religiose più antiche, ancora oggi insuperate. Ma è soprattutto “metaterapia” e trattamento volto ad un cambiamento delle azioni del passato e del presente riconosciute erronee. La scrittura di sé, perciò, già nella concezione platonica, ma anche in quella stoica, assumeva – e ancor oggi sa dimostrarcelo – un ruolo (poi raccolto dal Cristianesimo) teso alla riappacificazione con se stessi, all’ammissione delle proprie colpe, all’ autocontrollo delle proprie scelte, come antidoto contro gli istinti, le passioni insensate, le irragionevolezze.

3. A tal proposito penso ai carcerati…

Nel tentativo di tradurre in pratica tali principi, a lungo mi sono occupato presso le carceri milanesi di introdurre le attività di scrittura di sé sempre nel rispetto di queste antiche linee guida. Direi ottenendo risultati importanti, aiutando i detenuti a scrivere e a riflettere sulla loro storia in piena libertà e sospensione del giudizio, senza intenti valutativi che non fossero da costoro ritrovati e messi in pagina.

4. Perché per lei è interessante proprio quella autobiografica? Cosa ha in più rispetto ad altre forme di scrittura?

La scrittura autobiografica è un insieme di modalità narrative non verbali (diari, memorie, appunti, lettere, cronologie di vita, ecc.) che rientra nel genere delle cosiddette “storie vere”. Ciò non perché abbia il potere di condurci – per lo meno non sempre – a svelare in modo veritiero fatti, esperienze, emozioni che abbiamo attraversato. È un genere che si discosta dalle scritture di finzione, dichiarate o taciute; da quelle cosiddette creative, di fantasia, evasione, le quali in molte circostanze come quelle citate, ci distraggono e distolgono dal dovere di guardare in faccia, con responsabilità, talune realtà scomode che preferiremmo dimenticare.
Invece le scritture autobiografiche, nella loro gamma, ci permettono di educare nel corso del tempo quelle attitudini morali di cui si è detto: si tratta perciò di prassi “veritative” autoprodotte per libera scelta. Hanno il compito di condurci a ricostruire quanto con sincerità “crediamo” di aver realmente vissuto e non inventato. Sono scritture affidate alla più assoluta discrezione dell’ autore, che certamente potrebbe anche mirare ad ingannare il lettore (dal momento che chiunque scrive per svelarsi, confessarsi, affidarsi a qualcuno).
Il che fa sì che la scelta di indagare la propria soggettività rappresenti il vertice di un’avventura personale, di una libera scelta, ripeto, che non mira (o non dovrebbe mirare) a dimostrarsi soltanto una produzione di carattere letterario. Anche la pagina più elementare e grammaticalmente discutibile nella quale ci si racconti in prima persona, costituisce una manifestazione dell’umano che ci chiede di essere comunque ascoltata e letta. Ne consegue che ogni “reperto” o documento autobiografico, anche effimero, è traccia, lascito, eredità di una presenza che ha sentito il bisogno, per i motivi più disparati, di farci sapere della sua esistenza, del proprio essere stato al mondo. Quali ne siano state le sorti.
Il pensiero e le pratiche autobiografiche vanno annoverati in tal modo a tutti gli effetti tra i diritti individuali non negoziabili e imprescindibili delle culture democratiche. Così come – al contempo – ogni pagina scritta di nostro pugno dovrebbe essere considerata come un documento storico, sociale, antropologico, semiologico, assolutamente prezioso: da salvare, proteggere, far conoscere. Quanto detto ci invita di conseguenza a mettere tra parentesi le analisi soltanto di natura estetico-letteraria. Una modalità che nel corso dei secoli ha attribuito valore solamente ai generi autobiografici ricondotti ad autori celebri e non agli scritti umili degli emarginati, dei semianalfabeti, degli ultimi.

→ Qui puoi acquistare i libri di Duccio Demetrio←

5. La scrittura di sé potrebbe essere intesa anche come una valvola di sfogo per quelle persone che non trovano ascolto nel mondo esterno?

Certamente lo è: nella letteratura clinica psicoanalitica svolge una funzione di carattere liberatorio e catartico. Scrivere è espulsione dei ricordi più dolorosi, che però restano: catturati, intrappolati, consegnati alla carta. E’ un atto emancipativo. Il fatto di depositarli su un foglio (oggi su uno schermo) equivale a vivere il sollievo lenitivo di essere riusciti a ricostruirli, a leggerli e eventualmente a offrirli ad altri in lettura.
Non è un caso che fin dai momenti fondativi del movimento psicoanalitico – Sigmund Freud tra costoro – gli antesignani di tali pratiche cliniche (questa volta in un senso terapeutico clinico, non filosofico) abbiano scritto di sé e su di sé al fine di comprendere le origini di talune personali sintomatologie facendo autoanalisi.
La scrittura di sé, e in ogni caso anche per chi sia mosso da progetti ambiziosi di carattere letterario, inevitabilmente ci invita e costringe a scandagliare come una sonda il nostro passato, sempre che l’ inconscio di cui l’oblio si nutre con la collaborazione del setting psicoanalitico, sia disponibile a rilasciare i nostri più remoti messaggi trasformandoli in ulteriori indizi traumatici. La scrittura oggi è non a caso (e finalmente) ritenuta un’alleata preziosa dei processi di natura terapeutica non filosofici.

6. Ho sempre pensato che la scrittura sia un modo per ritagliarsi uno spazio di silenzio. Direi un silenzio voluto, che fa bene all’anima. A cosa serve per lei questa dimensione dell’umano?

Dico spesso che la scrittura (quale ne sia questa volta il tipo) è generatrice di silenzio. Costringe a staccarti da ciò che ti circonda e quindi anche da quanto accade in un ambiente assordante. Sono innumerevoli gli esempi di scritture redatte in condizioni di rumorosità estreme: in stato di guerra, nei frastuoni metropolitani e umani, in abitazioni ad alta presenza di fonti sonore vocali, musicali, ecc. Giustamente in tali situazioni vorremmo cercare un po’ di silenzio e la scrittura (come la pittura e qualsiasi altra attività intellettuale che richieda un’alta concentrazione) ci aiuta a raggiungerlo, a sostarvi, a mutarlo in un piacere che senz’altro ci offre benessere, sempre che sia questo che cerchiamo.
Non dobbiamo però dimenticare che si può soffrire per troppo silenzio (come in una miriade di casi è accaduto durante la pandemia, nella fase lockedown che ha visto però migliaia di persone rivolgersi alla scrittura di sé per riempire quei silenzi).
Il silenzio ha il potere di distenderci così come di inquietarci; di farci ascoltare meglio – ad esempio nel contatto con la natura – taluni suoni, così come di cancellarli del tutto. Occorre aggiungere che il silenzio, oltre ad essere fonte di “stati di grazia” sublimi per la mente e l’ animo, può diventare un’esperienza drammatica, per nulla pacificatrice: quando ci viene impedito di parlare, di ascoltare, di condividere; quando venga il silenzio associato all’ingiustizia, alla perdita di libertà, al sopruso, alla emarginazione.

7. Per esempio in un paese come Anghiari, dove si trova la vostra Libera Università dell’Autobiografia, vedo molto di quella possibilità di recuperare lo spazio di silenzio che proprio di quei borghi a misura d’uomo, oltre poi della scrittura…

La LUA fin dai suoi primi passi e cioè nel 1998- 99, grazie alla bellezza del borgo e dei dintorni appenninici, si prefisse di favorire le attività sedentarie o in cammino dedicate alla scrittura autobiografica considerandole occasioni di educazione al silenzio. Come ho già sottolineato, la scrittura è gesto che crea silenzio dentro di noi e quando le venga offerta la possibilità di essere sperimentata in luoghi silenziosi si trasforma in una occasione meditativa, che favorisce e esalta la ricerca della bellezza esteriore e interiore.

8. Come si lega oggi la scrittura con il mondo dei social e, soprattutto, per i giovani? Io vi trovo una contraddizione: più che essere una cura dell’anima, alimenta il narcisismo…

Le scritture via social, le ritengo new-epistolari, sono forme di interazione e di socializzazione delle informazioni, delle emozioni, dei sentimenti. Hanno rimesso in evidenza quanto la scrittura nasca e si diffonda all’insegna della sua invenzione migliaia di anni fa, in quanto strumento, metodo, necessità umana di comunicazione, prima ancora che di raccoglimento personale e introspettivo. Tale uso si diffuse successivamente in relazione allo sviluppo delle culture soprattutto occidentali, che iniziarono a coltivare la nozione di individuo, di Io e poi, con il Cristianesimo, di persona.
I social hanno quindi, a mio parere, un ruolo primario rispetto agli scopi citati ma, come lei opportunamente sottolinea, non concorrono a mitigare le propensioni narcisistiche dilaganti nelle loro manifestazioni più superficiali, esibizionistiche ed effimere. È evidente che anche se sui social si scrive molto di sé, anche per sentirsi meno soli e contrastare l’insorgere di paure e apprensioni, tali scritture di tono autobiografico non educano alla interiorizzazione, alla crescita del nostro mondo interiore. Tutto viene esternalizzato: si è espropriati da una socialità enfatizzata per esorcizzare i momenti di solitudine che sono inevitabili nella vita.

Iscriviti alla newsletter

Condividi su: