Michela Marzano è filosofa, scrittrice di successo e professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Umane e Sociali dell’Università Paris Descartes. Nelle sue pubblicazioni ha affrontato prevalentemente tematiche legate al corpo, all’etica, all’amore e alla questione dei diritti civili; ricordiamo, fra gli altri, “Sii bella e stai zitta. Perché l’Italia di oggi offende le donne” (2010), “Volevo essere una farfalla” (2011), “L’amore è tutto. E’ tutto ciò che so dell’amore” (2013), “Papà, mamma e gender” (2015).
Alcuni anni fa avevamo avuto il piacere di collaborare con lei per il progetto Mi ritorni in mente, che aveva l’obiettivo di promuovere un nuovo vocabolario della salute mentale ed era il frutto del laboratorio filosofico realizzato insieme agli ospito del CSM di Trento.
In questa intervista abbiamo parlato soprattutto dei temi trattati nel suo ultimo libro “Idda”, ovvero l’oblio, il riconoscimento dell’altro e la malattia.

Michela Marzano_Officina filosofica_intervista

1. “Vivono in un’altra dimensione, in un mondo diverso dal nostro. Non per questo, però, meno degno o disumano. Dipende dai familiari, se sono presenti oppure no: la signora Morrou, in questo, mi sembra fortunata, ci siete voi che le state accanto. […]. Pure quando non si è in grado di relazionarsi con gli altri come si faceva in precedenza, rimane sempre qualcosa. […]. Anche allo stadio più avanzato di una malattia neurodegenerativa, quando i centri fisici della memoria sono quasi interamente distrutti, rimane la percezione di ciò che accade, rimane l’affettività.” In queste parole pronunciate dalla neurologa nella sua opera IDDA, sta forse il senso più profondo dell’esistenza umana quando subentra una malattia neurodegenerativa. Lei crede che l’amore sia ciò che rimane immutato oltre l’oblio e la sofferenza?
Il punto di partenza di Idda è l’idea che ognuno di noi è sempre e solo il frutto del proprio passato, e che sa verso dove dirigersi perché si ricorda da dove viene. Poi, lavorando sul tema della perdita della memoria, ho capito che la realtà è molto più complicata, e che anche quando pezzi interi della nostra esistenza scivolano via, restano comunque dei “residui di sé”. Quando Alessandra, voce narrante di Idda, discute con una specialista di malattie neurodegenerative e le chiede cosa resti di Annie ora che la madre del suo compagno non riconosce più gli oggetti e le persone, non riesce a vestirsi o lavarsi da sola, pensa di essere ancora una bambina e non ricorda nulla del marito o del figlio, la dottoressa Brun le risponde che anche allo stadio più avanzato di una malattia neurodegenerativa, quando i centri fisici della memoria sono quasi del tutto distrutti, rimane la percezione di quello che accade, rimane l’affettività. Ecco perché, anche se è dolorosissimo per un figlio o una figlia non essere riconosciuti dalla madre o dal padre, non si dovrebbe mai dimenticare che in queste persone resta un sentimento di familiarità, a tratti ineffabile, a tratti indescrivibile, e che però, nonostante tutto, perdura, e va ben al di là della malattia.

2. Al di là dei contenuti estremamente coinvolgenti del suo romanzo, l’elemento che ci ha particolarmente colpito è stato il titolo. Un pronome di derivazione meridionale, che lascia trasparire non solo un riferimento alle sue origini ma sembra rimandare a qualcosa di più profondo ed arcaico che sta nel significato stesso del termine. Da cosa nasce la scelta di questo titolo?
Il termine “idda” (“lei”) si riferisce ad Annie, la madre di Pierre. È grazie a “lei”, infatti, che Alessandra inizia a fare i conti con il proprio passato e che la madre lingua può tornare a galla. Alessandra è una giovane donna italiana che, al momento dei fatti raccontati nel romanzo, ha lasciato da quasi diciassette anni la propria terra per fuggire da un’infanzia dolorosa: è arrivata in Francia, ha deciso che l’unico modo per sopravvivere è cancellare la memoria del passato, in Salento non vuole più tornarci. Quando però Annie si ammala di Alzheimer, e Pierre viene sovrastato dallo sconforto, sarà proprio Alessandra che, accostandosi a quest’anziana signora malata, riapre la porta sul passato. È d’altronde proprio attraverso il racconto della storia di Annie che Alessandra riesce a riaprire lentamente il cassetto dove aveva nascosto la propria infanzia.
Dopo aver fatto di tutto per dimenticare le proprie radici, sono le parole che utilizzava da bambina che riemergono. Sentendosi di nuovo figlia, ricorda di quando sua madre la chiamava “puricina”, ricorda il padre che le recitava i versi di Leopardi in dialetto salentino, ricorda le frasi pronunciate da Totò, il fattore dei suoi genitori, il giorno in cui i suoi avevano avuto un incidente automobilistico, e pian piano sente nascere in lei l’esigenza di tornare in Salento e sciogliere i nodi ingarbugliati del proprio passato.

3. Tra le questioni più delicate quando arriva una malattia neurodegenerativa ci sono sicuramente la paura e il riconoscimento: la paura del malato di non riconoscersi più, la paura dei familiari di non riconoscere più la persona cara. La persona affetta da queste patologie rimane quella che è sempre stata o cambia fino a diventare qualcun altro? Cosa accade dopo?
Quando un figlio o una figlia diventano “genitori dei propri genitori”, il dolore, lo sconforto e la fatica sono enormi – “no, non è vero che mamma ha l’Alzheimer”, dirà un giorno Pierre ad Alessandra; “la dottoressa non ha mai utilizzato questa parola”, ripeterà più volte nonostante la madre abbia iniziato a confonderlo col padre o col marito, e non sia più in grado di badare da sola a se stessa.
Eppure anche nella vita reale, e non solo in Idda, le nuove relazioni affettive che si stabiliscono sono estremamente feconde. Anche semplicemente perché una madre, sebbene apparentemente non sia più capace di “dare”, continua in realtà non solo ad essere la stessa persona di prima, ma anche a “dare” tantissimo amore. Certo, è diversa da prima perché meno attenta, meno precisa, meno efficiente, meno automa. Ma in quel “meno” si cela forse l’essenziale della vita. I sentimenti e l’affetto. La familiarità. L’amore. Come dirà a un certo punto del romanzo la dottoressa Brun ad Alessandra, l’unica frase che non scompare mai è “ti amo”: a lei lo ripetono spesso i suoi pazienti, anche quando dell’amore non ricordano più nulla, come se solo l’amore potesse ancora tenerli in vita. L’amore resta, anche quando l’oblio ce la mette tutta per cancellarlo, l’amore non sparisce mai.

4. In queste situazioni si parla spesso della dignità del malato, senza talvolta avere ben presente di cosa si stia discutendo, specialmente in ambito politico. Lei su questo fronte è sempre stata molto attenta e attiva. Crede che l’Italia sia abbastanza attenta a questa dimensione che coinvolge un ambito estremamente delicato della persona?
Purtroppo credo i responsabili politici abbiano ancora molta strada da fare in questo ambito. Si tratta prima di tutto di capire che invecchiare significa diventare fragili, dipendere dagli altri, non poter più essere in grado di fare tutto da soli. Poi si tratta anche di fare i conti con la realtà del nostro Paese, visto che in Italia sono ormai molto numerosi coloro che vivono quotidianamente la realtà della demenza senile o dell’Alzheimer dei propri genitori o comunque di una persona cara. Quando gli amici mi chiedevano di cosa parlasse il libro che stavo scrivendo, e io dicevo loro che raccontava la storia di una donna che si ammalava e perdeva progressivamente la memoria, ho scoperto che ognuno di loro aveva conosciuto o conosceva da vicino qualcuno affetto da demenza senile o da Alzheimer. E che, in fondo, ognuno di loro aveva non solo sperimentato il dolore immenso che si prova quando una madre o un padre non ti riconoscono più, ma anche acquisito pian piano la consapevolezza dell’importanza fondamentale del proprio passato.

5. Nel libro “Volevo essere una farfalla” lei scrive che “quando si soffre si è sempre soli. E’ come se l’altro percepisse il dolore da lontano e volesse proteggersene. Lo sente, ma lo nega. Se ne allontana. Torna al proprio lavoro.” Il dolore dunque è un’esperienza che isola, che fa paura forse perché resta qualcosa di incomprensibile. E’ davvero sempre così?
Continuo ancora oggi a pensare che quando si soffre si sia soli, anche quando abbiamo accanto a noi tante persone che ci vogliono bene, pronte a tutto pur di alleviare il nostro dolore. Il mio dolore, però, non potrà mai essere esattamente come il tuo, e viceversa. Ognuno di noi è unico, e nessuno può vivere qualcosa al nostro posto, o come la viviamo noi. Forse oggi, però, a differenza di quanto ho scritto in “Volevo essere una farfalla”, non direi che l’altro nega per forza il nostro dolore e se ne allontana. Oggi so che l’altro può restarci accanto; e che quando ci ama, può anche non voltarsi mai dall’altra parte.

6. Da un paio di mesi si è concluso il festival della filosofia a Modena, e le sue lezioni magistrali sono tra le più seguite. Abbiamo avuto modo di partecipare a diverse edizioni ed ogni volta sembra crescere in maniera esponenziale il numero di partecipanti. Che interpretazione si sente di dare relativamente a questo fenomeno che sembra essere in controtendenza rispetto ad un momento in cui la società non sembra abbia il tempo di soffermarsi a pensare?
Penso che il numero sempre maggiore dei partecipanti al festival della filosofia di Modena sia legato al bisogno crescente che c’è oggi nel nostro paese di cultura e di strumenti critici per pensare sia il presente sia il futuro. È vero che spesso si va di fretta, e talvolta ci sono così tante cose da fare che manca anche solo il tempo di soffermarsi su ciò che ci accade o che accade alle persone care. Però, quando l’offerta culturale è alta, accade sempre più frequentemente che le persone il tempo lo trovino, e che partecipino a questi eventi con grandissimo entusiasmo e voglia di imparare cose nuove.

7. Uno degli obiettivi del nostro blog Officina filosofica è quello di promuovere la conoscenza delle pratiche filosofiche e di diffondere la filosofia anche fuori gli ambienti accademici tout court. Una particolare attenzione riveste per noi l’ambito educativo, lei crede che il dialogo filosofico possa aiutare gli studenti, fin dalla scuola primaria, ad elaborare quel pensiero della complessità che sembrano aver perso soprattutto a causa dell’uso precoce della tecnologia?
Ne sono certa. Sono anni che anch’io ripeto che i più giovani hanno bisogno di essere aiutati per imparare a ragionare e a pensare con la propria testa. E che tutto ciò è proprio il frutto del dialogo filosofico.

8. Per terminare l’intervista facciamo sempre una domanda ai nostri ospiti: quale “pensiero filosofico” sente di esprimere ai lettori del nostro blog?
L’unica cosa che vorrei ricordare è come la filosofia sia soprattutto un modo per raccontare gli ossimori e le contraddizioni dell’esistenza. E che è per questo che ci aiuta a vivere e ad attraversare i nostri vuoti e la nostra finitezza.

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