Moreno Montanari è analista biografico a orientamento filosofico, insegnante di filosofia al Liceo, docente presso la Scuola Philo e Mitobiografica-Scuola del mestiere di vivere. E’ autore di numerose pubblicazioni tra cui Hadot e Foucault nello specchio dei greci. La filosofia antica come esercizio di trasformazione (Mimesis), La filosofia come cura (Mursia), Vivere la filosofia (Mursia,) e Gli equivoci dell’amore (Mursia); a settembre è uscito il suo ultimo libro Il Tao di Nietzsche (Mursia).

1. La filosofia è spesso ritenuta qualcosa di superfluo, in particolar modo nell’era della tecnologia; lei invece con il suo lavoro e le sue opere ribalta totalmente questo stereotipo. Come dunque la filosofia può rivelarsi importante per l’uomo contemporaneo?
È nota la definizione di Aristotele della filosofia come la più inutile di tutte le scienze e non di meno di tutte la più importante. Un apparente paradosso e forse una forma di civetteria con la quale lo stagirita intendeva evidenziare come proprio liberandosi dall’ossessione di essere per forza utilitaristico e performativo, il pensiero potesse raggiungere, con la contemplazione disinteressata esercitata per mera passione, le sue vette più alte, la sua massima espressione. Tuttavia la filosofia si è posta anche, sin dalla sua fase sorgiva, lo scopo di permettere all’essere umano di orientarsi di fronte alla complessità della realtà, cercando innanzitutto di capire quale fosse il suo posto in essa e di mettersi al servizio della possibilità di promuovere la piena fioritura delle proprie potenzialità, che sempre Aristotele chiamava eudaimonia e che, un po’ sbrigativamente, traduciamo con felicità. In questo senso la filosofia si è sempre posta al servizio della vita tanto che si può dire, con Safranski, che “La filosofia è la vita che si prende cura di sé”.
2. “Diventare ciò che si è” è un concetto fondamentale per Nietzsche e potremmo dire che è il fil rouge del suo pensiero, può spiegare perché è importante per l’individuo la realizzazione autentica di se stessi?
Per non correre il rischio di vivere per conto terzi, in maniera anonima, impersonale. Non crede che sarebbe un incredibile spreco, una vera disgrazia? Un adagio ebraico dice: quando sarai morto e sarai al cospetto dei giusti non ti sarà chiesto perché non sei stato Mosè ma perché non sei stato te stesso. Ecco: “diventare ciò che si è” è un compito, l’esito di un lavoro, reso celebre da Nietzsche, che tuttavia mutuava la frase da Pindaro, e che io ripenso, grazie al contributo di Jung, in chiave individuativa. Può apparire un paradosso: come si fa a divenire se stessi, ossia qualcosa che si è già? La questione è proprio questa: la nostra identità non è fissata, determinata, data una volta per tutte ma è in costante evoluzione ed è il prodotto del mondo in cui ce ne prendiamo cura, della nostra capacità di sviluppare e integrare le diverse anime che ci compongono (fu Platone, ben prima di Freud, a parlare della psiche come tripartita), nella fondamentale consapevolezza dei nostri limiti non meno che dei nostri talenti, della presa di coscienza che esistere è prendere parte a delle relazioni che ci intessono e contribuire al loro sviluppo e che in ogni biografia risuona, a saper prestare orecchio, l’eco di un’infinità di altre vite. Più che un percorso di differenziazione, dunque, il processo di individuazione volto a divenire ciò che si è, si caratterizza per la sua capacità di integrare e rielaborare gli aspetti, personali e collettivi, che ci caratterizzano, al fine di comporre la nostra storia, senza raccontarsi frottole. Come ha scritto bene, in estrema sintesi Romano Màdera nel suo ultimo libro su Jung, la via dell’autenticità inizia quando ci si dispone a lasciare la via dell’imitazione per instradarsi in quella dell’individuazione; è in fondo la decisione, sempre da rinnovare, di nascere una seconda volta: alla consapevolezza, all’adultità, alla responsabilità di sviluppare appieno la fioritura del proprio modo di essere e, con essa, della vita che ci innerva.
3. Può spiegarci chi è l’analista filosofo ad orientamento biografico?
È innanzitutto un filosofo, perché impegnato a trasformare la sua esistenza in una consapevole pratica di ricerca di senso e di cura di tutto ciò di cui ho appena detto. È poi una persona che di questa attitudine, che si fa esercizio quotidiano, fa anche una professione di cura, nel senso dell’inglese to care e non del to cure, (il mio riferimento è il realtà la Sorge di Heidegger, rispetto alla Kur) perché non si rivolge alla terapia delle patologie ma alla cura della vita nel suo insieme, certo, in particolar modo quando questa va in crisi, smarrisce il senso del proprio stare al mondo, constata l’inaridirsi del proprio slancio vitale, si trova ad affrontare momenti particolarmente delicati, e così via. Ma è un “analista filosofo” perché ha appreso, non solo teoricamente, in una comunità-scuola di analisi biografica ad orientamento filosofico, a familiarizzare con il linguaggio simbolico, onirico e non, a riconoscere e tesaurizzare le dinamiche inconsce di compensazione e proiezione del proprio mondo interiore, a valorizzare l’importanza e la fecondità della dimensione immaginativa; è, da ultimo, biografico perché riconosce che ogni vicenda personale, al di là dei tentativi di ricondurla a tipologie cataloganti, costituisce un unicum, seppure all’interno di alcune costanti antropiche e in consonanza con alcune forme archetipiche, che possono risultare comprensibili solo se analizzate in uno sguardo d’insieme che sappia collocarle e leggerle all’interno di un’analisi delle dinamiche storiche e collettive che le innervano; sa, insomma, che la complessità della realtà e della nostra personalissima vicenda biografica, non possono ridursi al ripiegamento del soggetto su se stesso ma richiedono la comprensione delle diverse trame collettive che lo innervano. Da ultimo, quest’analisi filosofica è consapevole di svolgere una funzione pedagogica eticamente orientata non ad un modello astratto e universalmente valido ma alla facilitazione della propria strada e alla comprensione e alla realizzazione della propria individuazione.
4. In Italia ci sono diverse scuole, corsi e master in consulenza filosofica, Philo, che lei ha contribuito a fondare, ha sicuramente una sua peculiarità all’interno di questo panorama. Ci può spiegare come si struttura la scuola?
Il corso è quadriennale e si rivolge a coloro che desiderano acquisire competenza professionale nella formazione e nella cura, o che scelgono di approfondire in questa direzione la propria professionalità, quale che sia. Il corso, partendo dall’impegno vocazionale nella pratica di un modo di vivere filosofico, ha come obiettivo la cura della vita. Base imprescindibile sono la costruzione e lo sviluppo di una consapevolezza personale che, solo in quanto tale, può diventare per l’altro aiuto nella ricerca di un senso dell’esistenza capace di sopportare e integrare i momenti di crisi, trasformandoli in occasioni di comprensione e di equilibrio. Al termine dei quattro anni, dopo la discussione del proprio elaborato finale, la scuola rilascia un diploma in Analisi biografica a orientamento filosofico che consente di accedere a Sabof, associazione professionale che riunisce gli analisti filosofi, legalmente riconosciuta ai sensi della legge n. 4/2013. I docenti della Scuola in Analisi biografica a orientamento filosofico sono: C. Baracchi, M. Cornacchia, L. Formenti, I. Gamelli, N. Janigro, P. Jedlowski, R. Màdera, D. Melloni, C. Mirabelli, M. Montanari, A. Prandin, U. Sossi. Il percorso della Scuola è quadriennale, e ogni anno di corso ha inizio a novembre e si conclude nell’ottobre dell’anno successivo. Per ogni anno sono previsti 10 weekend di lezione e un seminario residenziale di quattro giorni con tutti i docenti, per un totale annuo di 200 ore.
La specializzazione in Analisi biografica a orientamento filosofico richiede il completamento di almeno 200 ore di analisi personale riconosciute dalla scuola; sono inoltre previste 50 ore individuali con analisti filosofi, finalizzate a rielaborare un tema mitobiografico riattraversando forme culturali condivise.
5. Una delle attività che più ci ha colpito della sua esperienza professionale è la “Scuola per il mestiere di vivere – Mitobiografica”, come trovare il proprio mito può aiutare nella quotidianità?
Innanzitutto va spiegato che questa è una scuola completamente vocazionale che non rilascia diplomi spendibili in concorsi e non da accesso ad alcuna professione, benché è evidente che si propone di avere un’importante ricaduta nelle diverse professionalità di chi vi si iscrive. In questo senso si occupa del difficile, ma irrinunciabile, mestiere di vivere. Non sembri una finalità presuntuosa: la scuola nasce proprio dalla consapevolezza che non esistono professionisti della vita e che l’unica strada per orientarsi in questo compito sia cercare di capire come prendercene cura. Se se ne indaga l’etimo, mestiere rimanda a servitium, e ci invita a chiederci al servizio di chi o di cosa mettiamo la nostra vita. La scuola invita a chiedersi qual è il mito, il racconto ricorrente, che organizza la nostra idea di vita, che risuona nella nostra personalissima vicenda storica, se in esso è possibile riconoscere tratti archetipici della psiche collettiva, ossia tipizzazioni delle risposte che l’umanità ha posto, nel corso dei secoli, a specifiche questioni esistenziali e come si può entrare in rapporto dialettico con esse.
6. Lei ha espresso più volte e in diverse occasioni che l’essere filosofo è una vocazione più che una professione, in che senso lei intende il termine vocazione?
In forma assolutamente laica. Me ne servo per distinguerlo da desiderio, concetto bellissimo ma forse carico di troppe interpretazioni discutibili che lo imperniano sulla mancanza e sul movimento del soggetto verso l’oggetto che, si presume, possa colmarla (o alimentarla nuovamente), mentre con vocazione si intende una particolare sensibilità verso uno stile di vita, che non è mosso da una mancanza ma, piuttosto, da un senso di riconoscimento, una sorta di risposta alla chiamata che – come dicevamo sopra – lo invita ad essere appieno. È più una disposizione che un bisogno, indica qualcosa per la quale ci si sente naturalmente portati, qualcosa che si rivela capace di dare slancio vitale al nostro gusto per la vita e che ci sprona a condividerlo con altri. In forma meno altisonante si può dire un’attitudine e un interesse che si fanno stile di vita.
7. Lei ha scritto diverse opere in merito all’importanza della filosofia (Vivere la filosofia, La filosofia come cura) ed è in uscita il suo ultimo libro “Il Tao di Nietzsche” edito da Mursia nella collana Tracce, vuole raccontarci di cosa si tratta?
Intanto non mi stupisce che non mettiate nel novero dei miei lavori Gli equivoci dell’amore, anch’esso pubblicato con Mursia, perché esiste il pregiudizio che si tratti di un tema, frivolo, o privato, in ogni caso di qualcosa che non avrebbe a che fare con la filosofia e con le sue feconde ricadute esistenziali, mentre l’amore è una questione centrale tanto per la filosofia quanto per la vita ed è forse l’esercizio spirituale per eccellenza, il più arduo e affascinante banco di prova di ciò che siamo e di ciò che possiamo diventare, nel bene e nel male. Il Tao di Nietzsche, uscito il 20 settembre, invece è un’indagine comparativa tra due forme di pensiero per molti versi sorprendentemente affini e, ciò che forse più conta, assolutamente attuali e preziose per orientarsi nella complessità spaesante del nostro tempo. E’ uno studio, più simile, nella forma e nelle finalità, al mio lavoro su Hadot e Foucault ma pensato sempre con finalità psicagogiche, ossia tenendo conto delle possibili ricadute che, nel suo piccolo – grazie al fatto di appoggiarsi sulle spalle di giganti – potrebbe avere nella vita del lettore.
8. Per concludere una domanda che facciamo sempre ai nostri ospiti, quale “pensiero filosofico” vuole esprimere ai lettori del nostro blog?
Una bella frase di un artista italiano, Luigi Camarilla, che recita così: “andare a fondo è il contrario di affondare”. Vi rivedo il monito socratico secondo il quale una vita non interrogata non vale la pena di essere vissuta. Magari ne vale la pena, non sarei così drastico, ma non è nella superficialità che possiamo trovare la nostra realizzazione: una vita interrogata permette di passare dal mero vissuto all’esperienza esaminata, compresa, dalla quale trarre profitto in futuro, per sé e per gli altri. Chi l’ha detto che solo le esperienze traumatizzanti vanno rielaborate? Ogni esperienza non interrogata scade a mero vissuto, muto, senza indicazioni di senso. Andare a fondo, in quanto ci è accade, provare a capire davvero cosa si prova e cosa ci porta ad agire in un modo anziché in un altro è – come mi ha recentemente una mia analizzante – “un’esperienza bellissima”. Ed essere il facilitatore di questa esperienza è per me una vera gioia. Lo ha scritto bene Irvin Yalom, analista esistenzialista che ripetutamente dichiara che la filosofia e la letteratura gli sono stati più utili, in senso terapeutico, della sua laurea in psichiatria: “mano nella mano con i nostri pazienti, assaporiamo il piacere delle grandi scoperte – l’esperienza dell’insight, quando frammenti disparati all’improvvisono scivolano dolcemente in un insieme coerente. In altri casi siamo la levatrice presente alla nascita di qualcosa di nuovo, liberatorio e elevato. Osserviamo i nostri pazienti abbandonare i vecchi schemi paralizzanti, staccarsi da antiche lamentele, sviluppare la gioia di vivere (…) è una gioia vederli aprire i rubinetti delle loro fonti di saggezza” (I. Yalom, Il dono della terapia, Neri pozza, p. 252). Che cos’è questa se non quella seconda nascita di cui parlavamo?
About The Author: Officina filosofica
More posts by Officina filosofica