Ogni anno FSCIRE organizza una conferenza per commemorare la morte del suo fondatore, Giuseppe Dossetti, avvenuta il 15 dicembre 1996, le cosiddette Letture Dossetti. In questa occasione abbiamo avuto l’onore di intervistare il filosofo Salvatore Natoli, che ha tenuto la Lectio dal titolo “Il fine della politica nella fine della politica”, una dissertazione sulla categoria giudaica di éscathon, l’attesa del mondo a venire, che da sempre ha inciso sulla storia dell’Occidente e della sua filosofia politica.

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1. Nel suo libro “Il fine della politica” (Boringhieri), lei scrive che la nuova dimensione della politica è quella dell’emergenza: si passa così da una politica in grado di progettare il futuro ad una che rischia di essere schiacciata sul presente. Non crede che in questo modo si configuri proprio la fine della politica?

Per capire cosa vuol dire “fine della politica” e qual è la politica che è finita bisogna muovere da lontano. Per i cristiani, quanto Dio ha promesso ha trovato in Cristo il suo compimento, ma la gloria di Dio non ha ancora trovato la sua piena manifestazione che avverrà solo quando il Cristo Signore tornerà. Nota l’espressione: tra il già e non ancora. Ma dal momento che il ritorno del Signore sempre atteso e continuamente rinviato non si è mai compiuto, il moderno ha iniziato a riordinare gli assi della temporalità. E così il futuro è divenuto sempre meno l’”orizzonte dell’attesa” e sempre più l’ambito in cui l’uomo si è mano a mano reso – lui – garante della propria salvezza. E’ a questo punto, che la politica ha cominciato a penetrare sempre di più nelle pieghe della vita. Nascono le “filosofie del progresso”. Ma tutto ciò ha comportato antagonismo e lotta contro le forze che lo limitano fino all’idea di potere neutralizzare in radice il male. Di qui una lotta finale e senza quartiere per passare – come diceva Marx – dalla preistoria alla storia dell’umanità. In questo quadro la politica ha assunto aspetti demiurgici, ha tentato l’assalto al cielo, ha preteso – in un’accezione del tutto profana – di portare l’eschaton a compimento. Da qui la nazionalizzazione delle masse, la rivoluzione proletaria, infine i totalitarismi. Ma il tentativo è fallito. Ebbene è questa la politica che è finita e tutto ciò va sotto il nome di “fine delle ideologie”.
Ma la storia non è affatto finita e perciò la politica – deposta ogni idea di definitività – si viene determinando sempre più come “governo della contingenza”. Viviamo in un continuo transitare, ma bisogna distinguere tra “l’appiattimento sul presente” – che vuol dire lasciarsi trascinare da ciò che accade – e “adesione al presente” che vuol dire cercare di comprendere cosa si cela nelle sue pieghe, scoprire le sue possibilità latenti e, a partire da queste, “immaginare mondi possibili”. Tanti, non uno solo: come a dire, dal finalismo alla logica del virtuale.

2. Negli ultimi decenni, la politica ha cambiato radicalmente protagonisti, modalità comunicative e contenuti. Lei ritiene che sia cambiato anche il fine o rimane immutato nel suo significato più autentico?
Nella sua storia evolutiva, la società si è sempre più differenziata ed è divenuta – come si dice – sempre più complessa. Per tal via il moderno è fuoriuscito da sé e con esso si sono consumate le forme politiche che in esso si sono modellate. I centri di potere si sono moltiplicati: nel contempo si è disarticolato il centro e di qui la crisi delle forme classiche di rappresentanza. In queste condizioni, qual è lo spazio operativo della politica? Pur nella definalizzazione della storia, gli uomini non cessano di perseguire fini, magari parziali. Quello della politica resta invariato: provvedere al bene comune che è poi la ragione per cui le è dato esistere e finché c’è società non può venire meno. Vale a dire sempre, almeno fino a che vi saranno uomini sulla terra.

3. Da qualche tempo le nuove generazioni, hanno preso coscienza dell’importanza di essere protagonisti del futuro, di quel futuro ineludibile di cui lei parla. Da Greta Thunberg a livello mondiale, alle sardine a livello locale. Questi movimenti spontanei, giovani e civici, possono essere la chiave per una nuova visione della politica nel senso più etimologico del termine?
Dal momento che il tempo continua, resta sempre una riserva di futuro. Ma per quale futuro? Certo, non più quello troppo lontano e astratto delle utopie, né quello troppo ambizioso e prevaricante delle rivoluzioni, ma quello modellato sulle generazioni: vale a dire, lasciare a coloro che verranno un mondo migliore da com’era quando ci siamo entrati. Ciò è vero per le generazioni mature che non possono non sentirsi impegnate con coloro che hanno generato; ma questo è particolarmente vero per i giovani che in questo mondo sono appena entrati e hanno il futuro innanzi a loro. E lo vedono minacciato. I movimenti civici sono sintomatici di queste preoccupazioni e vivono la politica come impegno per gli interessi collettivi: primo l’ambiente, con tutto ciò che questo comporta nella modificazione delle forme di vita. Resta da vedere quali siano i modi e le forme per perseguire questi obbiettivi. Il modo tradizionale è quello di darsi rappresentanza parlamentare. Ma non basta, anzi può essere deviante perché i movimenti come nascono muoiono. Bisogna invece esercitare una costante pressione sociale, fare politica per amore “della città dell’uomo” e gratis. Tutto questo senza balzi in avanti: meno speranze e più perseveranza, dal momento che la perseveranza è il “laboratorio concreto” ove sperimentare le vie del possibile. Specie oggi, quando il nostro mondo sporge più che mai sull’imponderabile.

4. Secondo la famosa definizione di Hegel “ la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero”, essa quindi non viene vista come una mera disciplina da studiare, ma piuttosto come un atteggiamento che l’uomo può assumere nei confronti della propria vita. Lei è d’accordo con Hegel? Che cos’è per lei la filosofia?
Con Hegel e non solo. Tutta la grande filosofia ha cercato sempre di comprendere la vita in tutte le sue forme: per trasformarla, renderla, per quanto possibile, migliore. Ma ciò vuol dire problematizzare ciò che in essa è bene ed è male, ciò che l’accresce, ciò che la distrugge. Per farlo non bisogna disciogliersi in essa, ma valutarla. Nessuna vera conoscenza è stata mai astratta: ha conseguenze.

5. Quale libro consiglierebbe a chi vuole avvicinarsi alla filosofia?
Dal momento che far filosofia vuol dire condurre una “vita filosofica” e “d’amore per la città” consiglierei di iniziare da Socrate ed esattamente dalla presentazione che ne fa Platone nella sua Apologia.

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