Irene Merlini e Maria Luisa Petruccelli sono consulenti filosofiche, esperte in pratiche filosofiche e Philosophy for Children/ Community. Nel 2015 hanno pubblicato per Edizioni Esperidi Le pecore filosofe. Dove sono io? e da poco è uscito il loro ultimo libro Perché? 100 storie di filosofi per ragazzi curiosi scritto con Umberto Galimberti e edito da FeltrinelliKids.

1. Siete entrambe Consulenti filosofiche ed esperte in Philosophy for Children. Ci potete brevemente spiegare da cosa è nata la passione per le pratiche filosofiche e qual è stata la vostra formazione?
(MARIA LUISA) Fin dagli studi del liceo prima e universitari poi, leggendo le opere dei filosofi era per me naturale vederne il legame con il quotidiano: come posso fare la scelta giusta? Riuscirò a superare i miei limiti? Quanto i miei pregiudizi influenzano la mia visione delle cose? I filosofi ci “costringono” a interrogarci sul senso della vita, e le domande che fanno sorgere in noi possono essere un valido aiuto per orientarci in un mondo che sembra andare sempre più di fretta nel fornire risposte a domande che non abbiamo nemmeno avuto il tempo di formulare.
La scuola di psicofilosofia di Milano (riconosciuta dalla S.I.Co) è stata l’occasione per trasformare questa mia attitudine in un percorso formativo all’interno del quale ho potuto acquisire le competenze necessarie per praticare la filosofia in ambito professionale e sociale, restituendole così il suo compito originario, ovvero quello di esercizio quotidiano di conoscenza e cura di sé.
Mi piace però pensare che questo intreccio tra me e la filosofia sia nato molto prima, all’incirca all’età di otto anni, quando, come succede a molti bambini, mi sono “imbattuta” nella paura della morte. In quella occasione mio padre, professore di filosofia, mi sottopose un insolito punto di vista, quello del filosofo Epicuro. Ecco, oggi forse posso dire che quel primo incontro con la filosofia mi ha portato a praticarla sia con i bambini che con gli adulti.
I filosofi e i loro sistemi di pensiero, lungi dal fornirci un prontuario di risposte per ogni occasione in un processo che ci vedrebbe passivi, rappresentano la base di partenza su cui operare un cambio di prospettiva, che è poi ciò che ci permette di cogliere le diverse sfumature e sfaccettature del mondo che abitiamo (e che ci abita), crearci gli strumenti necessari per interpretare fatti e situazioni e agire consapevolmente.
Questo discorso vale per gli adulti come per i bambini, in ambito sia lavorativo che personale e comunitario. Essere un professionista nell’ambito delle pratiche filosofiche significa allora costruire di volta in volta con strumenti filosofici e con un linguaggio attento anche al contesto e ai diversi interlocutori, un dialogo che possa ampliare la propria visione del mondo, imprescindibile ma mai definitiva.

(IRENE) Da quando l’ho incontrata sui banchi di liceo, la filosofia più che passione è stata subito una specie di necessità. Continuando a coltivarla tra i cortili della Statale di Milano scoprivo che, in fondo in fondo, era una questione di aderenza a me stessa… per quanto poi parlare di “aderenza” in merito al pensiero filosofico possa apparire bizzarro, perché più ti ci addentri e più risulta troppo attillato o troppo lento da qualche parte. Per lo meno per me c’era sempre questo gioco, senza contare il contesto metropolitano, pieno di stimoli e contraddizioni sociali in cui mi ero ritrovata a vivere, che complicava le cose. Insomma, era una continua e non troppo consapevole ricerca di misure, imbricate con la vita, i pensieri e col mondo che vivevo. È da lì che è maturata in modo naturale l’idea che la filosofia deve essere anche pratica. Dovevo farla uscire dalle pagine che leggevo per vedere fino in fondo dove se ne sarebbe andata una volta portata in mezzo alla realtà.
Ho continuato allora la mia formazione prendendo anche altre direzioni, consapevole che in questo campo non ci sono strade sicure o precostituite. Bisogna stare con le orecchie tese e gli occhi aperti. E fare esperienze. Tre corsi nazionali di Philosophy for Children, la vicinanza alle “Pratiche filosoficamente autonome”; il diploma alla scuola di Counseling Filosofico triennale di cui parlava Maria Luisa (ed è stato lì che noi due ci siamo conosciute); e poi seminari, residenze e aggiornamenti variegati. Voglio dire che si tratta di un ambito in cui devi metterci del tuo, la tua creatività e personalità, e cucire tutto insieme, sperimentare, tentare percorsi, in un lavoro che non finisce mai. Bambini e bambine, ragazzi e ragazze, rimangono il mio luogo preferito: fonte inesauribile di sorprese e di stimoli, hanno domande sempre nuove, provano risposte insospettabili, e così mi ricordano che niente è definito per sempre, che niente è perduto per sempre.

2. Quali sono le abilità che l’approccio filosofico aiuta maggiormente a sviluppare nel bambino?
I: Non parlerei di abilità in questo contesto. La mia attuale formazione mi porta a confrontarmi col mondo della disabilità, perciò mi viene naturale contrapporre le abilità, come saper fare qualcosa, che sia un compito o una prestazione, alle disabilità, cioè alla difficoltà se non impossibilità di farlo.
Se in questione c’è l’approccio filosofico, che è un come più che un cosa, credo sia più calzante parlare, seppure solo metaforicamente, di agilità, nel muoversi ovunque, in terreni anche sconosciuti. Che non vuol dire per i bambini e le bambine essere leggeri nel saltare rapidamente di palo in frasca. Non è questione di velocità, ma di agilità come “stare a proprio agio”, diventare avvezzi, familiari, abituati, a muoversi sia dentro pensieri stagnanti o pesanti come zavorre che sembrano schiacciarti, sia dentro quelli superficiali, che ti sfiorano soltanto, ma in cui non lasci correre via le idee. Si tratta di saper stare anche in compagnia di dubbi e problemi che sembrano farti impazzire, senza la paura di impazzire. A volte i bambini dicono “Aiuto! Mi si stanno attorcigliando i pensieri!”, ma lo fanno senza timore, con gli occhi accesi quasi come di fronte ad una avventura.
È così che imparano a diventare agili nel creare collegamenti e relazioni tra idee, emozioni, vissuti, esperienze, persone. Perché l’approccio filosofico aiuta a chiedere ragioni, a ideare ragioni, non per forza della logica ma anche del cuore. E aiuta ad esprimerle in parole.

ML: Portare la filosofia nel mondo dei bambini è un’esperienza arricchente, anche per gli adulti, compresi i professionisti del settore. Si dice che i bambini siano naturalmente filosofi e questo è vero nella misura in cui, non avendo sovrastrutture di pensiero (a differenza degli adulti), sono paradossalmente più abituati ad un approccio in cui la loro mente si muove in maniera “libera”. Questo garantisce un’apertura mentale che predispone ad un pensiero creativo, e il pensiero creativo è fondamentale nel processo di risoluzione dei problemi.
Grazie ai laboratori di filosofia, inoltre, i bambini possono sperimentare la tolleranza e il rispetto dell’altro, perché si abituano a “mettere in comune” le loro idee nel dialogo. Tutti aspetti, questi, fondamentali nel percorso di crescita.

3.“Perché? 100 storie di filosofi per ragazzi curiosi” è il vostro ultimo libro scritto a sei mani con Umberto Galimberti. Raccontateci com’è nato questo progetto e cosa significa lavorare a stretto contatto con un pensatore eminente come Galimberti.
Dopo aver letto “Le pecore filosofe”, che gli è piaciuto molto, il professor Galimberti ci ha proposto di scrivere le cento storie di filosofi.
Abbiamo da subito accolto con entusiasmo questo progetto, decidendo tutti insieme come svilupparlo. L’idea era di far riferimento alle esperienze che i bambini vivono quotidianamente, rivolgendoci ai piccoli lettori in maniera colloquiale, non troppo seriosa, così da far emergere lo stretto legame tra la filosofia e il loro mondo.
Per selezionare i cento filosofi ci siamo fatti guidare da criteri di diverso tipo. Entrambe abbiamo dato la priorità ai temi che avremmo voluto affrontare, dando spazio anche ad un pensiero femminile, e considerando la “geografia dei filosofi” (non solo nella arricchente differenza tra occidentalità e orientalità) e la loro attualità. Ovviamente ognuno di noi aveva le sue preferenze, ma alla fine siamo riusciti ad arrivare ad un elenco completo.
La scelta di trattare temi “difficili” ma necessari, come la morte, ci ha trovato invece da subito tutti d’accordo, perché i bambini, essendo esposti, direttamente o indirettamente, anche a questi argomenti, hanno bisogno di acquisire gli strumenti giusti per poterli affrontare. E con questi strumenti, che hanno l’obiettivo di stimolare domande e riflessioni, anche l’adulto può addentrarsi più agilmente in un dialogo con il bambino.
L’idea poi di un piccolo “esercizio” che abbiamo proposto alla fine di ogni storia, proprio per dare al lettore la possibilità di cimentarsi direttamente con quanto letto, è stata accolta con entusiasmo, sia da Galimberti che dalla casa editrice.
Le pecore filosofe ci hanno “allenate” alla dimensione della scrittura non individuale, che è tanto complessa quanto arricchente, quindi ci siamo sentite un po’ a casa dovendo nuovamente scrivere insieme.
Il professor Galimberti ha supervisionato con attenzione il lavoro che prendeva forma, curando i testi e proponendoci in alcuni casi di sostituire dei temi con altri che personalmente non avremmo scelto, e questa è stata una bella sfida per noi, perché ci ha permesso di avventurarci su un terreno ancor più delicato e che avrebbe richiesto un lavoro arduo per poter rendere le storie a misura di bambino.
E’ stata un’esperienza che ci ha insegnato molto sotto tanti punti di vista, oltre che un lavoro impegnativo, che però sapevamo di poter svolgere al meglio grazie anche alle competenze maturate negli anni col nostro lavoro di filosofia pratica con bambini e ragazzi.

4. Quale, tra i filosofi che avete raccontato nel libro, potrebbe, più degli altri, affascinare i ragazzi di oggi, spesso nativi digitali alle cui domande risponde la rete più che l’essere umano?
I: Questo è un mistero. Spesso sono affascinati da ciò che non ci aspettiamo e si soffermano su quelle che a noi sembrano inezie. Certo è che sono nativi digitali e hanno abilità innate col mondo tecnologico. Il problema è che la rete non risponde alle domande, o meglio, risponde sì, ma solo a domande chiuse, del tipo “che tempo farà domani a Mosca?” o “quali sono i confini del Kurdistan?” – e anche qui potrebbe arrancare un po’ -. La rete è grandiosa nell’offrire risposte inequivocabili in tempi record che, nella cultura della vita è tutta un quiz, va benissimo. Ma sul perché si muore, se Dio esiste, o cosa sia davvero la verità …. beh, di risposte non ce ne sono lì dentro. Quindi direi che se in questione sta il rapporto coi media e la tecnologia, Baudrillard, Foucault, Bauman offrono spunti interessanti.
Se in questione sta l’aspetto irriducibilmente umano, Levinàs, Stein, ma anche Locke, Derrida e moltissimi altri hanno qualcosa da dire.

ML: Difficile da dire. Ogni storia contiene elementi “insoliti” e quindi affascinanti per un bambino, e ogni storia è una piccola sfida per il pensiero, perché è costruita per “pensarci su”, a differenza di quanto avviene con le risposte immediate della rete.
La varietà dei temi poi è pensata per arrivare ad ogni bambino e bambina, perché ognuno, con la sua storia personale, unica ed irripetibile, sarà naturalmente affascinato da alcuni temi più che da altri o si ritroverà maggiormente in alcune storie piuttosto che in altre. Come del resto è successo a noi che, scrivendo quelle storie, ci siamo più o meno inconsciamente affidate al nostro “mondo piccolo” (un tema caro al filosofo Benjamin e che troverete in questo libro).
Ci sono poi storie che fanno riflettere proprio sulle conseguenze di una eccessiva digitalizzazione del mondo, come quella dell’apprendista stregone di Gunther Anders, o del villaggio globale di Marshall McLuhan. E poi c’è Platone col suo mito della caverna, ed Erasmo da Rotterdam col tema della follia, molto vicino al mondo dei bambini. Non mancano figure femminili di rilevante importanza, come nel caso di Martha Nussbaum, che mostra la fragilità del bene e di Hannah Arendt che ci parla della banalità del male. Sicuramente prospettive importanti da cui guardare questi due aspetti della vita con cui tutti ci siamo confrontati da piccoli e continuiamo a confrontarci anche da grandi.

5. In “Le pecore filosofe. Dove sono io?” affrontate con ironia e semplicità una tematica estremamente complessa: insegnare ai bambini a pensare fuori dagli schemi, a dare senso alle cose. Come rispondono i ragazzi ai laboratori che proponete nelle vostre attività di pratica filosofica?
I: In “Dove sono io” il tema è l’identità, che non si può definire. Ecco perché è un “dove sono” e non un “chi sono”. È stata una scelta fatta per dare il senso di un percorso, di una transumanza, di una geografia, nomade e non definitoria.
È proprio questo lo spirito che anima le nostre attività. Un percorso che ti affascina nel momento in cui lo vivi, ci sei dentro, che acquista un senso costruendolo insieme, man mano, tornando indietro, facendo soste, cambiando rotta…e a loro questo piace, ha un senso per i ragazzi perché anche se la meta non è chiara, si accorgono che è uno spazio-tempo per pensare e ragionare su qualcosa di importante. Pensare fuori dagli schemi si traduce poi anche in un parlare fuori dagli schemi. Che dire infatti dell’enorme sforzo di esprimersi nel veicolare un pensiero o un’intuizione, altrimenti questa o quella compagna ti fraintende? E mentre cercano e compongono nomi, verbi e sfumature giuste per farsi capire dagli altri, succede che capiscono meglio se stessi, mettendo anche in discussione quello che credevano di sapere solo perché è quello che “si sa”.
Tutto ciò può apparire disorientante visto dall’esterno, ma non lo è. Per loro non lo è affatto.

ML: Diciamo che in generale in Italia non si è ancora raggiunta una piena confidenza con le pratiche filosofiche, anche se c’è una diffusione che sta diventando sempre maggiore e che viene accolta positivamente.
Se parliamo di filosofia con bambini e ragazzi, dobbiamo sempre tenere presente che esiste e resiste ancora un diffuso luogo comune che vede la filosofia come qualcosa di astratto e complesso già per gli adulti, (figuriamoci quando si parla di bambini.). Compito di chi come noi si occupa di pratiche filosofiche e di filosofia con i bambini è quindi anche quello di scardinare, con la nostra attività, questo luogo comune.
I laboratori di filosofia nelle scuole sono pensati anche per gli insegnanti, che possono formarsi acquisendo quelle competenze che rendono ancor più efficace il loro importante e delicato ruolo. La filosofia praticata in questi laboratori diventa un modello transdisciplinare che valorizza una formazione e una educazione che non si limita alla trasmissione di informazioni, ma fa nascere nel bambino il desiderio di apprendere.
Entrare per la prima volta in una classe parlando ai bambini di filosofia è sempre una bella avventura, fatta anche di sorprese inaspettate. Dopo un iniziale momento di smarrimento (fondamentale per ogni piccolo o grande filosofo che si rispetti), ci si rende conto come pian piano i bambini abbandonano le dinamiche tipiche del contesto didattico per abbracciare un’esperienza che li vede protagonisti, tra dubbi, domande e tragitti alternativi che mettono in moto il pensiero critico. Naturalmente ogni bambino ha i suoi tempi, ed è giusto così. Ma quando la classe entra nel vivo della pratica filosofica, ognuno sa che in qualche modo è parte di un processo, razionale ed emotivo insieme, di scoperta e comprensione. Questo processo è facilitato anche dal fatto che il bambino sa di non essere “sotto esame”, o meglio, che è lui stesso a mettere sotto esame i suoi pensieri e le sue idee, all’interno di quello che può essere definito un “gioco serio”.
Al termine di ogni laboratorio la speranza è quella di aver messo in moto qualcosa, di aver piantato il seme per una pratica che possa continuare sia nell’ambiente scolastico che a casa, favorendo l’abitudine a questo tipo di dialogo tra insegnanti e studenti e tra genitori e figli. Un dialogo che diventa filosofico nel momento in cui le domande dei bambini non vengono chiuse da una risposta definitiva, ma ampliate da altre domande che li abitueranno alla sospensione del giudizio e ai tempi dilatati della riflessione, allontanando così anche l’ansia da prestazione che il mondo in cui viviamo, fatto di voti e ideali di successo preconfezionati, fa sorgere in ognuno di noi.

6. Da poco si è concluso il Festival della Filosofia a Modena, un evento che riesce a coinvolgere un numero di partecipanti da finale dei mondiali di calcio. Secondo voi, possono queste iniziative promuovere la nascita di nuove “Pecore Filosofe”?
ML: Non sempre i grandi numeri sono sinonimo di qualità, ma fa sicuramente ben sperare il fatto che anche la filosofia possa idealmente riempire uno stadio. È il segnale che c’è un ritrovato interesse nei confronti dell’esistenza autentica, dell’etica, della giustizia. L’augurio è che questo interesse non si esaurisca finito l’evento, ma che prosegua dando vita ad azioni consapevoli e dirette verso la costruzione di un mondo migliore (perché, ricordiamolo, la filosofia è azione che origina dal pensiero).
Le Pecore Filosofe, mettendo a confronto idee di pensatori che mai si sarebbero potuti incontrare tra loro dal vivo, vogliono, tra le altre cose, sottolineare l’importanza del confronto di pensieri differenti. Crediamo che questo debba oggi essere il senso della filosofia, soprattutto in un tempo in cui si parla principalmente per il piacere narcisistico di ascoltarsi.

I: Sono d’accordo con Maria Luisa, e parlo da frequentatrice del festival fin dai suoi esordi. Iniziai ad andarci circa 15 anni fa, quando gli avventori erano un po’ meno e si viveva una dimensione più a portata di mano: ricordo ancora le panchine narranti o i treni col filosofo che oggi sarebbero improponibili anche solo per questioni numeriche. È una manifestazione che ho visto crescere in modo esponenziale, il che richiederebbe forse più un’analisi sociologica.
Direi che una piazza gremita è un dato poco rilevante in sé, perché anche una certa politica – se non ci imbarazziamo a chiamarla così – è capace di riempire le piazze; una piazza che fa riflettere comincia invece ad essere un dato rilevante, perché attiva campanelli che ti fanno aprire delle questioni, fosse anche per un paio d’ore; una piazza capace di far scaturire future azioni, cioè comportamenti, scelte e modi di porsi, ecco questo è il dato davvero rilevante.
Bisognerebbe prevedere il futuro, sapere se dopo il Festival cambia qualcosa per qualcuno. E questo non è possibile. Resta un modo, uno spiraglio, sia per chi ci va da appassionato, sia per chi ci capita per sbaglio, sia per chi è curioso e sia per chi ci va perché “fa figo”.
Non penso che la filosofia possa promuovere la nascita di pecore…di quelle se ne trovano in abbondanza, soprattutto in certi contesti. Ma di Pecore filosofe quello sì, lo spero sempre.

7. Per terminare l’intervista facciamo sempre una domanda a i nostri ospiti: quale “pensiero filosofico” vi sentite di esprimere ai lettori del nostro blog?
ML: Siamo abituati a dire che “difendiamo” un’idea. Personalmente preferisco dire che mi “prendo cura” di un’idea. La difesa implica un attacco e quindi un conflitto, che spesso diventa armato, anche se in guerra ci sono le idee. Si impone un punto di vista come verità assoluta. Il concetto di cura accostato alle idee trovo che possa aprire una prospettiva più interessante: aver cura significa dedicare tempo, osservare senza pilotare (un po’ come quando ci si gode il viaggio prestando attenzione al paesaggio e non fissandosi solo sulla meta), ascoltare senza imporre. Significa essere attenti e partecipi ad un processo di conoscenza che non modelliamo a nostro piacimento su di noi, ma verso il quale ci apriamo, accogliendo la novità che ogni idea porta con sé. Solo così possiamo scoprirci e riscoprirci nuovi ad ogni passo.

I: Posso esprimere un pensiero, non saprei se “filosofico” o meno, oggi che tutto può esserlo, anche una frittata – ed è autoironia questa, non una critica. Ci sto dentro con tutte le scarpe! -. E a dirla tutta non m’importa poi molto quest’ etichetta.
La premessa è che vivo letteralmente sul mare, col rumore delle onde nelle orecchie d’estate e d’inverno, di notte e di giorno. Più d’inverno e più di notte, quando diventa quasi urlante.
Allora il mio pensiero – filosofico? – (ri)guarda il mare, e forse è un’immagine, una similitudine. Il mare unisce o divide? Mi unisce o mi divide dall’Albania, mi unisce o mi divide dalle coste africane? È una questione di geografia? Di politica? Il mare è vita o morte? Nasconde tesori o cadaveri? Ancora, è una questione di economia? Di umanità?
E la filosofia dove si colloca? Pensare è come andare per mare, e ognuno ci va per forza con la politica, la geografia, l’economia e l’umanità che si porta dentro e addosso. Ecco perché ti ci muovi su una nave da crociera o su un pedalò. Puoi tirare dritto a tutta birra fino alla costa che ti sei prefissato, oppure senza meta fermarti gettando ancore ogni tanto, ma certo non ti ci puoi costruire una fissa dimora, una casa di mattoni su una base liquida. Puoi restare in superficie, immergerti, e ci puoi anche affondare se qualcuno ti buca il salvagente.
Resta il fatto che il mare ti chiama. E così il pensiero in qualche modo. Credo che chi neppure si confronta col mare si perde il vero della vita, con tutti i suoi rischi. Si perde ciò che vale la pena. Certo sono scelte, e dipendono da tutti quei fattori che elencavo sopra. Ma chi sceglie di restare a terra e osa pontificare, osa impedire a un pensiero di pensare, a una vita di vivere… ecco, dovrebbe starsene col rumore urlante delle onde in un’eterna notte invernale.
Quella libertà tutta blu, di vita e pensiero, starà sempre lì. A chiamarti.

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