Laura Campanello è consulente pedagogica, filosofa e analista biografica ad orientamento filosofico; è autrice di numerosi articoli e saggi, tra cui “Sono vivo ed è solo l’inizio” e “Leggerezza” (editi da Mursia), collabora con il Corriere della Sera e cura la rubrica “Piccoli esercizi di felicità” per la 27esimaora. Corriere.it. Per dieci anni ha lavorato all’Hospice dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano come filosofa e assistente spirituale laica, ruolo che ricopre ora presso la RsA di Villa dei Cedri a Merate (LC).
1. La consulenza filosofica si dirama in diversi ambiti ma lei ha indirizzato inizialmente la sua ricerca ed il suo lavoro nell’area pedagogica. Da cosa nasce questa scelta?
A 19 anni, appena diplomata in un liceo magistrale-sperimentale, ho iniziato a lavorare in un asilo nido, quindi il mio primo approccio è legato al caso ma anche ad una passione giovanile. In seguito ho approfondito la dimensione educativa perché credo che, quando ti interessi ad uno sguardo sul mondo e ad un modo di intendere l’uomo, necessariamente si ritorni al discorso educativo. La filosofia dell’educazione, che diventa pratica educativa, è quella che ha a che fare con le scuole, con la genitorialità e anche con un pensiero auto-educativo, quindi non ho mai visto scissi in alcun modo il discorso filosofico e il discorso pedagogico.
2. Nel lavorare con genitori e famiglie immaginiamo che spesso entri in gioco il concetto di errore o sbaglio. Il filosofo come agisce quando emerge questa dimensione e l’emotività che vi sottende?
Molti genitori vivono come una colpa gli errori che hanno commesso, come se ci fosse un modello di genitore perfetto a cui loro non hanno saputo aderire. Quindi il filosofo cerca da una parte di destrutturare questi modelli così schiaccianti e dall’altra di far comprendere che l’errore è un’esperienza necessaria all’essere umano perché ci fa capire molte cose: per esempio in che modo la direzione o il percorso intrapresi erano sbagliati, se ci sono stati dei condizionamenti socio-famigliari che hanno imbrigliato il percorso oppure che cos’è intervenuto a livello emotivo.
La capacità della filosofia è proprio quella di esercitare uno sguardo dall’alto per scoprire quali sono gli aspetti che possiamo modificare ma soprattutto quelli che non possiamo cambiare, come l’indole di un figlio o alcuni lati del carattere.
3. Un altro tema importante a lei molto caro è quello della morte: ha scritto un libro dal titolo “Sono vivo ed è solo l’inizio”, organizza Death Cafè ed in qualche modo c’entra anche con il motto del suo sito “Ricordati di vivere, nient’altro”. Parlare di morte e di fine vita oggi è ancora un tabù?
Sì ma credo che si inizi finalmente a parlarne un po’ di più: l’approvazione della legge sulle direttive anticipate di trattamento ha ad esempio aperto la necessità di promuovere dibattiti, incontri di formazione e sensibilizzazione a questi temi.
Da una parte le malattie oncologiche sono in aumento, quindi le scuole e i contesti legati alla salute devono fare i conti con qualcosa che prima era più sporadico; dall’altra l’allungamento dell’aspettativa di vita impone una riflessione sulla perdita di autonomia, sulla malattia, sulla morte e sul lutto per chi resta. C’è il desiderio di portare alla luce qualcosa che non può più essere considerato come una vergogna da vivere ritirati tra le quattro mura, ne sono un esempio l’aumento su questo argomento di libri per l’infanzia e il fatto che sempre più persone malate parlano della loro storia, come Francesca del Rosso (Wondy) o Nadia Toffa.
4. La morte è un tabù anche per gli operatori che assistono il malato terminale? E come vengono percepite in generale le cure palliative?
Purtroppo le cure palliative, come materia, vengono insegnate pochissimo nei corsi universitari per cui gli infermieri e i medici si laureano senza alcuna preparazione in merito. La morte inoltre non è solo qualcosa che riguarda l’altro ma riguarda anche me, quindi l’unico modo che ho per ripararmi da qualcosa che mi angoscia è difendermi da quello che l’altro mi rimanda in merito a questa nostra universale esposizione alla mortalità. Quindi il camice diventa una difesa per evitare di entrare in argomenti dolorosi per qualsiasi essere umano anche sano.
Noi viviamo però ancora molto nel mito dell’onnipotenza per cui ‘finché combatti puoi guarire, se non combatti sei un perdente o stai rinunciando all’esistenza: le cure palliative purtroppo vengono viste non come la possibilità di essere accompagnati a qualcosa di inevitabile, ma come la rinuncia a combattere per vivere ancora. Succede che il medico o l’infermiere spesso non le consigli perché il fatto di non avere più altre linee terapeutiche da proporre viene vissuto come una rinuncia o una sconfitta personale.
La morte è ancora indicibile, che è ancora più grave dell’essere innominabile, perché ti limita nella possibilità di percorrere delle vie che invece non sono solo necessarie ma anche preziose, dignitose, fondamentali.
5. In base alla sua esperienza lavorativa, com’è visto il filosofo nelle strutture che si occupano di questi aspetti della vita?
Dipende ancora molto dalla sensibilità dei medici e dalla loro disponibilità a mantenere uno sguardo estremamente aperto e critico. Il filosofo nelle cure palliative sta con i pazienti e con i parenti, ma si occupa anche molto di aiutare gli operatori che vengono quotidianamente messi in discussione dagli aspetti bioetici, esistenziali e da ciò che è giusto o meno fare. Il giusto infatti è biograficamente connotato dal paziente, non certo dal curante, quindi l’operatore dovrebbe svolgere un grande lavoro di decentramento. Il filosofo è colui che propone questo decentramento e uno sguardo dall’alto mettendoti in discussione come faceva Socrate, ma è anche quello che, laddove tutti tendono a semplificare, riporta la complessità nel suo valore.
Con i pazienti, invece, il filosofo aiuta a dar voce a quelle dimensioni della vita che sono la consapevolezza e il timore della morte, la domanda del senso oppure lo stare all’interno del vivere il proprio tempo dandogli un significato.
6. Lei ha inventato la cosiddetta “Philointervista”, che possiamo ascoltare sul suo sito lauracampanello.it e sulla 27esimaora.corriere.it e grazie alla quale ha incontrato, tra gli altri, Alessandro D’Avenia, Massimo Recalcati, Stefano Bollani. Ci può spiegare come si svolge?
Durante l’intervista, che ho inventato in occasione de “Il Tempo delle Donne 2017”, utilizzo un mazzo di 32 carte-domande per sondare le diverse dimensioni dell’esistenza: come vivi il tempo, qual è per te il denaro meglio speso, per cosa vorresti essere ricordato, quali sono i tuoi valori, come vivi il silenzio, ecc.
Queste carte prendono spunto dalle trascendenze che Romano Màdera insieme a noi di Sabof (Società di Analisi Biografica ad Orientamento Filosofico – www.sabof.it) ha individuato come lavoro che ciascuno di noi può fare per abitare la propria vita e il proprio mondo al meglio in tutte quelle piccole dimensioni quotidiane, che fanno di noi ciò che siamo e che realmente possiamo modificare con qualche piccolo esercizio per vivere in modo più autentico e soddisfacente.
7. Per riprendere una domanda sempre presente nelle sue Philointerviste, quali sono stati i suoi maestri?
Con questa domanda si vuole fare omaggio alle persone importanti della propria vita e quindi indubbiamente Romano Madera, i miei genitori, i miei figli perché credo siano la cosa più spiazzante che ti può capitare, alcuni cantautori come De André e Guccini che sono stati degli accompagnamenti poetici su concetti estremamente alti. Se vogliamo nominare un filosofo sicuramente Epicuro.
8. Che “pensiero filosofico” si sente di esprimere ai lettori del nostro blog?
Imporsi almeno una volta al giorno di fare caso a qualcosa di bello, come suggerito, ad esempio dal libro di Francesco Piccolo “Piccoli momenti di trascurabile felicità” che racconta quante piccole, apparentemente, trascurabili felicità ci capitano nella giornata.
Il pensiero filosofico che vorrei esprimere è quello di non evitare di porsi delle domande sulla vita , anche le più scomode, che peraltro spesso l’esistenza ci pone : se cerchiamo di rispondere concretamente e ogni giorno con il nostro modo di esistere, forse abbiamo la possibilità di una vita un po’ più piena, più autentica, addirittura più felice e non ci saremo dimenticati di vivere che è molto più interessante che ricordarsi che dobbiamo morire.
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