Plutarco nei Moralia raccontava di una città immaginaria in cui le parole si congelano per il freddo e poi col caldo si scongelano, così che gli abitanti sentono d’estate quel che si sono detti d’inverno.
Convinzioni e insegnamenti che dentro di noi da giovani rimangono congelati, si capiscono col crescere, a contatto con i problemi della vita di volta in volta incontrati. Virtù del bene, della giustizia, del coraggio e così via, accolte in maniera rigida, sono destinate ad essere comprese quando con l’avanzare dell’età ci si trova dinanzi agli schiaffi che l’esistenza ci consegna di volta in volta. Anche Platone saggiamente ammoniva che «una vita che non mette se stessa alla prova, non è degna di essere vissuta» (Apologia di Socrate). Forse è per questo che Socrate, difendendosi in tribunale, diceva di sé: «Non faccio nient’altro che andare in giro a persuadervi, giovani e vecchi, a capire che la vostra prima e maggiore preoccupazione non deve riguardare il vostro corpo o le vostre ricchezze ma la vostra anima, in modo che sia la più eccellente possibile» (Apologia di Socrate).
In ciò sta forse tutta l’essenza e il segreto dell’educazione. Probabilmente noi oggi abbiamo dimenticato tutto questo: invece di spronare le nuove generazioni verso mete ambiziose, pur attraverso delle strade impervie, abbiamo preferito spianare loro la strada perché non dovessero impegnarsi troppo, per evitare la prospettiva del rischio e l’impegno della salita. Invece dello Stay hungry, Stay foolish (restate affamati, restate folli) di Steve Jobs, nel suo famoso discorso all’Università di Stanford, abbiamo preferito il «restate sazi, restate conformisti» (A. Polito, Riprendiamoci i nostri figli) .

Felicità a portata di mano
C’è la percezione diffusa che si possa realizzare se stessi senza fatica. Indubbiamente il benessere conquistato dalle ultime generazioni ha prodotto la convinzione, rafforzata dal contributo dei mass media, secondo cui la felicità sia a portata di mano: dimagrire mangiando dei buoni biscotti, tonificare i muscoli senza fare ginnastica, diventare istantaneamente ricchissimi grazie alle lotterie. A dimostrazione di quanto i giovani siano vittima dei modelli imperanti, bisogna sottolineare come tutti i desideri di cui parla la società odierna siano desideri dell’hic et nunc: essa ci dice cosa dobbiamo comprare e possedere. Possiamo dire che non c’è nulla di autenticamente vero in tutto questo.
Edgar Morin sottolinea che «il ben-essere occidentale si identifica con il molto avere, mentre c’è un’opposizione, spesso sottolineata, fra essere e avere. La nozione di buen vivir o ben vivere ingloba tutti gli aspetti positivi del ben-essere occidentale, ne rifiuta gli aspetti negativi che provocano mal-essere, e apre la vita a una ricerca del ben vivere, che comporta aspetti psicologici, morali, di solidarietà, di convivialità» (Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione).
È una visione che cerca di escludere il futuro dalle nostre vite. Così è molto meglio educare alla pigrizia, all’inerzia perché il sacrificio non è di casa in questi tempi in cui la tecnologia può fare tutto al nostro posto.
Il giornalista Antonio Polito ben sottolinea come gli adulti hanno voluto risparmiare ad ogni costo ai loro figli la fatica del vivere e usa una bella metafora: «Invece che fare i genitori, ci siamo trasformati a poco a poco nei sindacalisti dei nostri figli, sempre pronti a batterci affinché venga loro spianata la strada verso il nulla, perché non c’è meta ambiziosa la cui strada non sia impervia. È un grande fenomeno culturale, e sempre più è un tratto del carattere nazionale […]. Ed è un grande fattore di freno alla crescita non solo economica ma anche psicologica della nazione» (Riprendiamoci i nostri figli) .
Ma abitare un’epoca di grandi privilegi economici non significa che per realizzarsi si è ottenuto uno sconto sulla fatica del vivere, anche se questo sforzo è contrassegnato più dalla fatica mentale (produrre idee e difenderle) che da quella fisica.
Gilles Lipovetsky sostiene che alla «dissoluzione dell’io» corrispondono la perdita dell’impegno e lo svaporarsi, conseguentemente, dell’educazione: «Lo sforzo non è più di moda, ciò che è costrizione o disciplina severa è svalutato […]. La nostra cultura dell’immagine e del benessere stimola la dispersione contro la concentrazione». E successivamente aggiunge: «Il narcisismo socializza desocializzando e la scena del presente è affollata da zombi» (L’era del vuoto).
In nome del loro benessere, abbiamo perseguito un modello sociale tutto teso a rendere loro la vita in discesa, senza accorgerci che così, in nome dei nostri figli, li abbiamo danneggiati. «Abbiamo anzi costruito le nostre vite e la nostra società in funzione del loro nutrimento. […] In funzione della protezione dei figli dal bisogno, con conseguenze sociali rilevanti e non sempre positive» (Riprendiamoci i nostri figli).
Si è vissuto, continua Polito, «un malinteso senso di protezione verso i nostri figli; malinteso perché in realtà tradisce una sfiducia collettiva nei loro mezzi, la paura di lasciarli nuotare con le loro forze il prima possibile. E questa sfiducia loro la sentono, e ne deprime l’autostima» . Inoltre, agendo in tal modo, diamo un giudizio sulle loro capacità, sulle loro possibilità di essere se stessi, di crescere, di emanciparsi. Non lo diciamo esplicitamente, ma loro colgono comunque questo giudizio.
I giovani che non hanno formato i giusti anticorpi troveranno difficoltà enormi nell’affrontare le difficoltà della vita. Proprio quei figli che, come generazione hanno contribuito più di ogni altra alla liquidazione del padre, e che sono stati gli ultimi ad avere come padre un uomo tiranno e distante, molto spesso sono padri che, per non perdere la fiducia dei loro figli, gli obbediscono.
In un passato non molto lontano erano i padri a comandare e i figli si preoccupavano di essere come i padri li volevano; ora non di rado è il figlio a dettare legge e il padre a sforzarsi di essere l’immagine edulcorata di come il figlio lo vorrebbe.
Se tutti conosciamo i disastri inflitti dai padri tiranni, non meno disastri rischiano di compiere questi padri genuflessi ai desideri dei figli. I genitori, facendo proprie le angosce di una società liquida, incerta e competitiva, sono terrorizzati dalla possibilità che l’errore possa perturbare il loro figlio come ideale. Tale insicurezza porta molti di loro ad avere rapporti amicali e permissivi con i propri figli, rinunciando al ruolo normativo e dimenticando il dovere di cui dovrebbero caricarsi.
La scuola di oggi
Vale un discorso simile per la scuola: sempre meno spiega ai ragazzi attraverso lo studio che la vita è fatta soprattutto di passi sdrucciolosi o di possibili cadute. Il tema dell’impegno, pur centrale nell’educazione odierna, sembra quasi del tutto ignorato per far posto ad altre istanze che solo in parte dovrebbero coinvolgere istituzioni scolastiche.
Secondo Frank Furedi «molti esperti sostengono che quello che i bambini e i giovani imparano a scuola non è in grado di prepararli a una vita da adulti. […] Uno sfortunato sottoprodotto della svalutazione dell’educazione classica è che il contenuto intellettuale dell’istruzione diventa negoziabile» (Fatica sprecata. Perchè la scuola oggi non funziona).
La negoziabilità dell’istruzione fa sì che le scuole, intese come strutture, si preoccupino in primis di fornire ai loro studenti programmi di studio che non li stressino. Ma è chiaro che solo attraverso la risoluzione delle difficoltà un individuo può crescere.
È per questo che mette in rilievo un “paradosso dell’istruzione”: mentre investiamo sempre di più nell’insegnamento, e sempre di più vorremmo ricavarne, le nostre scuole chiedono sempre meno impegno agli studenti. La maggior parte delle energie investite nell’istruzione viene così sperperata e il lavoro di insegnanti, genitori, pedagogisti, politici e studenti sta diventando una «fatica sprecata» .
Le basse aspettative nei confronti dei ragazzi, la tendenza a una forte psicologizzazione del rapporto educativo e un infinito maternage, la ricerca ossessiva delle loro motivazioni, il declinare dell’autorità degli adulti, invece di formare persone autonome, critiche, capaci di una propria visione del mondo, non può che portarle al contrario verso una infantilizzazione dei comportamenti.
Al contrario è necessario educare, attraverso lo scontro con gli spigoli vivi della realtà, all’idea che l’inciampo, la caduta, sia un ingrediente ineliminabile (se non necessario) per la nostra crescita.
La giovinezza dovrebbe essere appunto il tempo del fallimento come “opportunità” della crescita. Ma nel momento in cui gli adulti lasciano già tutto apparecchiato per i loro figli, questo irrobustimento del carattere sarà impossibile.
Ciò di cui le nuove generazioni hanno bisogno «non è essere protette dal senso di fallimento, ma avere l’opportunità di dare un senso alla vita attraverso la conoscenza di quanto di meglio la nostra cultura ha da offrire. Ricompensare il merito significa trattare le persone come adulti, mentre far sparire per magia il senso di fallimento risponde al desiderio di trattarle come bambini» (Che fine hanno fatto gli intellettuali?).
Il diritto all'infelicità
Sarebbe bene insegnare che l’infelicità è parte integrante dell’esistenza. I maestri, i pedagoghi e coloro che scrivono libri per bambini dovrebbero dedicare più tempo a insegnare loro che mamma e papà potrebbero morire, o potrebbero avere problemi di salute; sarebbe bene insegnare loro che si innamoreranno e la persona verso cui tendono il loro amore potrebbe non amarli; dobbiamo insegnare loro che pur amando tanto una persona ecco questa persona morirà, sparirà, se ne andrà. Gli adulti dovrebbero insegnare loro che la gioia dell’orgasmo, la felicità per un traguardo, l’entusiasmo della bellezza sono temporanei, mentre l’infelicità può essere un’ombra che li accompagna tutta la vita.
Dovrebbero insegnare loro l’infelicità come parte integrante dell’esistenza, perché dovranno essere maturi e la maturità e l’età adulta possono essere età piene di infelicità. Se sapranno l’infelicità, saranno forti e sapranno affrontare la vita. Sbagliarono i padri della Costituzione americana a mettere come diritto inalienabile quello “alla felicità”, mentre penso sia necessario immaginare un “diritto all’infelicità”. Perché nulla è più pervicace e testardo dell’infelicità umana.
Questi figli, che possono apparire in un primo tempo vincenti nel rapporto con il padre, rischiano così di finire pericolosamente sconfitti in quel processo di crescita che è prima di tutto indipendenza, autonomia, emancipazione dalle figure genitoriali. Se non fanno l’esperienza del limite, la loro personalità è destinata a rimanere fragile come un vetro di cristallo.
C’è sempre nel cammino di una vita la possibilità di qualche caduta da cavallo. Se invece i ragazzi vengono esposti a una dieta di vuoti complimenti, messi raramente alla prova e spinti ancora più raramente a riconoscere gli insuccessi, diventano impreparati ad affrontare le prove della vita, e anche episodi relativamente insignificanti li rendono emotivamente disorientati.
Già da piccoli è necessario educare all’incertezza come parte ineliminabile della vita, a riconoscere errori e illusioni. La famiglia dovrebbe essere il primo presidio dove si fa l’esperienza che la vita ci supera, che noi siamo dentro ad una vita più grande di noi. Subito dopo viene la scuola.
Dice a tal proposito lo scrittore Asha Phillips: «L’idea di poter soddisfare ogni bisogno del bambino e di potergli risparmiare ogni sofferenza finirebbe in realtà per produrre un individuo infelice e mal adattato. Non lo preparerebbe a vivere in un mondo abitato dagli altri; inizialmente il mondo sarebbe un regno magico di cui egli è il re; ma con l’andare del tempo si trasformerebbe in un luogo molto solitario e irreale» (I no che aiutano a crescere) .
Scoprire che non siamo un assoluto è l’unico modo per non devastare il mondo con narcisismi ed egoismi incontrollabili, che sono un po’ la cifra di una società che tira diritto per la sua strada indifferente ai bisogni dell’altro.
About The Author: Giovanni Capurso
E' docente di Filosofia, giornalista e scrittore. Ha pubblicato i romanzi di formazione "Nessun giorno è l’ultimo" (Curcio), "La vita dei pesci"(Manni) e "Il sentiero dei figli orfani"(Alter ego).
Scrive regolarmente per numerosi periodici e blog.
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