In un’epoca dove tutto dev’essere necessariamente utile, la filosofia che nasce in ragione della sua inutilità costituisce la più grande sfida al mondo moderno. Senza il senso della precarietà della vita, descritta da Platone attraverso la ben nota metafora della Caverna, non ci sarebbe l’esigenza di fare filosofia. Più che una fuga dal mondo, come spesso banalmente viene spiegata, è la ricerca di quell’unità da cui tutto sorge. Ma siamo talmente sedotti dalle ombre della realtà da non abitarla con il pensiero, e la tecnica ha reso la realtà talmente abitabile da non riuscire a vedere al di là di essa. Così stiamo rinunciando al pensiero in nome dell’efficienza.
Del resto la filosofia è sempre stata in una sorta di inimicizia con il reale e la sua storia è lastricata di questo tipo di incomprensioni. Talete il primo filosofo della storia, mentre stava scrutando le stelle e aveva gli occhi rivolti verso il cielo, cadde in un pozzo suscitando le risa di una servetta di Tracia la quale lo invitò a fare più attenzione alle cose davanti a sé. «Questo motto – scrive Platone – si può ben applicare a tutti quelli che fanno professione di filosofia»(Teeteto, 174 a-b).
L’autodistruzione della nostra civiltà è in parte dovuta alla mancanza di riflessione sulle conseguenze che questa macchina in corsa e senza freni può produrre. Se la tecnica del mondo antico era una poièsis, un produrre secondo virtù, quella moderna è finalizzata al dominio del mondo, tanto da arrivare a dominare l’uomo stesso. Essa non si limita a produrre gli oggetti, intuì Heidegger, ma provoca le forze, le energie insite nella natura per farla rientrare nel processo della produzione retto dalla regola della massima utilizzazione al minimo costo secondo una logica di profitto. Come un fiore che sbocciando svela la sua reale natura, agendo mediante i mezzi artificiali della tecnica l’uomo invece porta alla luce la “verità” dell’essere negli oggetti che produce, nello scopo che gli dà. Essa è il modo attraverso cui l’uomo “svela” la sua verità. Con la tecnica moderna, secondo Heidegger, il vecchio ideale artigiano del “saper fare” si è capovolto nella coazione a “dover fare” della produzione industriale. Così, mentre il contadino di un tempo, ad esempio, curava e accudiva la terra, affidando alle forze della natura la crescita del grano, oggi la tecnica ha trasformato l’agricoltura in un’organizzata industria dell’alimentazione. Tale preoccupazione si può riassumere nella frase seguente:
Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un dominio completo della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditativo, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca.[1]
Ciò che bisogna confutare e superare – per limitare il potere di distruzione totale che è oggi nelle mani dell’uomo – è “l’esagerazione tecnica” rappresentata dall’utopia del progresso illimitato e “l’arroganza” rappresentata dall’idea del dominio su una natura concepita come ciò che è disponibile ad essere manipolato a piacere. Le nuove generazioni si trovano a dover riflettere sulla necessità etica che deve partire da una chiara visione di ciò che è in gioco come conseguenza del progresso tecnologico. Un’etica che potrà essere fondata e resa vincolante soltanto attraverso un ripensamento del concetto di natura in grado di mostrare che questa possiede una finalità in sé stessa, e che questo essere scopo a se stessa costituisce l’intima essenza dell’essere, della vita.
Tale indagine, fa emergere un nuovo tipo di “dovere”, come dice Hans Jonas ne Il principio di responsabilità, umano non solo verso le azioni individuali, che tenga conto delle ripercussioni sulle generazioni future: alle nuove potenzialità che l’agire umano ha acquistato grazie alla tecnica moderna deve corrispondere una nuova teoria etica capace di valutare le possibili conseguenze catastrofiche che tale agire può comportare e che nell’epoca dell’alta tecnologia coinvolge l’intera biosfera.
Il maggior pericolo per la nostra società, così tecnologicamente sofisticata, risiede nella rigidezza mentale. Il nostro futuro si dirige verso un orizzonte nel quale l’organizzazione economica e sociale è destinata a fondarsi sulla capacità di manipolare idee, ancor prima che oggetti. Ecco perché la capacità di uscire rapidamente dai propri quadri mentali, per assumerne altri, diventa sempre più indispensabile. La riflessione filosofica, in tal senso, ci trasporta fuori dalla realtà nella quale siamo trapiantatati per pensarla, per rifletterci sopra.
Caratteristica che troviamo ben descritta in particolare nel Simposio nella ben nota “stranezza”(atopia) di Socrate, ossia nel suo non essere presente in nessun luogo se non in quello ideale della propria anima. Quando Aristodemo, uno degli invitati, giunse alla casa di Agatone dove si teneva il banchetto, un servo entrò annunciando: «Il nostro Socrate si è appartato ed è fermo sul vestibolo della casa dei vicini; malgrado l’abbia chiamato non è voluto entrare»(174, e). Ad Agatone che un po’ seccato insisteva per avere la compagnia di Socrate, Aristotemo rispose: «Non fate assolutamente niente, ma lasciatelo stare. Infatti, questa è una sua abitudine: talvolta si tira da parte, dove capita, e sta fermo là. Ma verrà presto, io penso»(175, b).
Giunto fra i convitati, Socrate indugiò immobile per circa mezz’ora, giusto il tempo perché il pranzo giungesse a metà, e poi, quando fu ebbro, Alcibiade iniziò a parlare del suo amore per Socrate, accennò a un altro episodio in cui questi «da un’aurora alla successiva aurora se ne stette immobile spiato dai compagni che volevano sapere quanto in quella condizione sarebbe durato»(220, c).
Ancora oggi, a maggior ragione, la saggezza filosofica può avere una sua funzione indiscutibile, purché chi la pratica e la insegna nelle scuole ne conservi lo spirito originario. Schopenhauer, per esempio, in un’opera minore, si scagliò contro quella gente scaltra (chiamati poi da Nietzsche i “filistei della cultura”) che, occupando posizioni cattedratiche, scriveva in maniera oscura, ovvero incomprensibile, per nascondere il vuoto di pensiero e la povertà di spirito. Scriveva infatti: «In generale, sono andato gradualmente convincendomi, che la suddetta utilità della filosofia cattedratica è superata da danno che la filosofia come professione reca alla filosofia come libera indagine della verità o, in altre parole, che la filosofia al servizio del governo reca alla filosofia al servizio della natura e dell’umanità»[2].
Più che una professione, la filosofia è piuttosto un atteggiamento di vita che consiste nell’avventurarsi da viandanti in luoghi inesplorati, facendo niccianamente della propria vita un “sacro esperimento”. Si può essere filosofi camminando oppure stando seduti, dietro una cattedra universitaria o nella solitudine di uno studiolo, parlare a qualcuno oppure a nessuno, purché si viva autenticamente l’attitudine a meditare e pensare. Perciò lo stesso Schopenhauer fa della filosofia un ritratto che a noi suonerebbe male:
«La filosofia pura non conosce altro scopo se non al verità, e potrebbe allora risultare che ogni altro fine cui si tenda per opera sua è dannoso allo scopo della verità. Il suo alto fine è il soddisfacimento di quel nobile bisogno, da me chiamato metafisico, bisogno sentito intimamente e appassionatamente in ogni tempo dell’umanità, nel modo più forte poi quando , come ora, la fama della dogmatica si è sempre più abbassata»[3]. E ancora: «La verità è stata in ogni tempo una pericolosa compagna, un’ospite ovunque sgradita, e presumibilmente presentata nuda, in quanto non porta con sé nulla, non ha nulla da distribuire, e vuol essere cercata soltanto per sé. Non può servire al tempo stesso due padroni così diversi come il mondo e la verità, i quali non hanno assolutamente nulla in comune. Un tentativo in questo senso conduce all’ipocrisia, all’adulazione, alla doppiezza»[4].
Dunque si fa filosofia perché costretti, per così dire, dai problemi ineludibili dello spirito umano, nella sua incessante ricerca del Vero. Tali problemi emergono dalle stesse questioni nelle quali l’uomo è costretto di volta in volta a imbattersi: religiosa, scientifica, politica, fino all’arte e alla letteratura. Pensiamo ai temi oggetto di importanti dibattito sulla bioetica: eutanasia, aborto, clonazione, ecc… I problemi che affronta la filosofia sono quelli in cui si trova l’uomo stesso nel suo cammino storico. Un sistema formativo che esclude tale disciplina nell’iter di un giovane, defrauda questo stesso giovane delle cose più importanti prodotte nella storia dell’uomo. Perciò, contro tutti coloro che cominciarono a cantare «l’esequie all’insegnamento filosofico»[5], Gentile volle difendere l’insegnamento della filosofia come strumento di «vera formazione delle teste»[6]. E «ricordiamoci – egli scriveva – che la testa non è se non ragione, spirito, e quindi riflessione, che la sola filosofia può educare: e anziché combattere l’insegnamento di questa, riducendola al lumicino, infondiamogli pertanto novella vita, rialziamolo e restituiamogli il pristino onore»[7].
Oggi molto spesso, al contrario, l’insegnamento della filosofia è diventata la sua tomba, essendo stata ridotta hegelianamente a una “filastrocca di opinioni”. Questo il commento impietoso di Roberto Carifi, scrittore e insegnante di liceo, che in linea di massima possiamo far nostro: «La prima tomba della filosofia è la scuola, dove lo studente impara che gli uomini hanno iniziato a filosofare per risolvere dei problemi e soddisfare dei bisogni di fronte ai quali gli antichi miti non erano più sufficienti. Anziché apprendere che la filosofia è uno stato naturale della mente e comprenderne il senso lo studente in genere impara l’esatto contrario e si trascina dietro per tutta la vita l’incapacità di cogliere l’essenza del pensiero filosofico, il suo non avere altro scopo che se stesso, la sua assoluta estraneità a qualunque mentalità utilitaristica. Alla fine di un corso liceale lo studente continua a non sapere che cosa sia al filosofia pur conoscendo vagamente qualche filosofo e pur essendo in grado di indicare tutte le possibili varianti del sillogismo aristotelico. Sarebbe un buon risultato se lo studente comprendesse che il principale scopo del filosofare è la pura conoscenza della verità, che il pensiero filosofico costituisce una via naturale e perenne di contemplazione metafisica, la forma più radicale e più pura di esperienza che non può venire confusa con nessuna delle scienze e delle discipline nelle quali la conoscenza dell’oggetto è sempre finalizzata all’uso e al dominio»[8].
[1] M. Heidegger, L’abbandono, Il Melograno, Genova, 1983, p. 36
[2] Sulla filosofia delle università, in Parerga e paralipomena, Adelphi, Milano, 1981, p.199
[3] Ivi, p.210
[4] Ivi, p.217
[5] Gentile, , Remo Sandron Editore, Milano-Palermo, 1900, p.9
[6] Ivi, p.210
[7] Idem
[8] In difesa della filosofia, Le Lettere, Firenze, 2001, pp.9,10
About The Author: Giovanni Capurso
E' docente di Filosofia, giornalista e scrittore. Ha pubblicato i romanzi di formazione "Nessun giorno è l’ultimo" (Curcio), "La vita dei pesci"(Manni) e "Il sentiero dei figli orfani"(Alter ego).
Scrive regolarmente per numerosi periodici e blog.
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