“Le opere, come nei pozzi artesiani, salgono tanto più alte quanto più a fondo la sofferenza ha scavato il cuore”

Marcel Proust

Quali sono i criteri per interpretare un’opera d’arte? Tentare una risposta a questa domanda, implica tenere presenti una quantità di elementi praticamente impossibili da enumerare.

notte stellata_van gogh

I criteri macroscopici che si impongono da subito sono generalmente due: il contesto storico/culturale in cui l’artista si trova immerso e successivamente la sua storia personale.

Non di rado i grandi artisti hanno avuto vite molto particolari, diventate celebri tanto quanto le loro opere. Anzi, la biografia, parallelamente alla loro produzione artistica, ha contribuito a creare loro attorno quell’aura di fascino che li ha resi celebri, e che ha toccato nel profondo chiunque sia sensibile a queste tematiche.

Ciò che incuriosisce, sta nel fatto che spesso molti artisti hanno avuto vite difficili e travagliate, corollate da periodi di crisi, contesti drammatici, rifiuti e mancato apprezzamento della loro produzione artistica: spesso la celebrità è arrivata solo dopo la loro morte.

Che si tratti di scrittori, filosofi, scienziati (non sono in un certo senso artisti anche loro?) sino ad arrivare all’artista nel senso tradizionale del termine, si può notare come spesso i loro momenti più bui coincidano in modo diametralmente opposto ad una fiorente produzione artistica o intellettuale. Definirla una coincidenza appare sicuramente riduttivo, ma d’altra parte il rischio che si corre in questa prospettiva è quello di limitare l’interpretazione dell’opera alla biografia dell’artista.

La spiegazione psicanalitica

La psicanalisi tradizionale, basandosi sul concetto di inconscio, ha sin troppo facilmente trovato una correlazione tra opera d’arte e patologia mentale (la cosiddetta “patografia”, di cui parla ampliamente Massimo Recalcati nell’opera Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh), riducendola in definitiva ad un derivato della malattia stessa, ovvero ad un sintomo.

Cito a questo proposito un’obiezione semplice e lapidaria fatta da un mio professore universitario, in contrasto col riduttivismo psicanalitico del caso: “Baudelaire era nevrotico, ma non tutti i nevrotici hanno scritto ciò che ha scritto Baudelaire”.

Il nesso esiste, è innegabile, ma non si può tuttavia interpretare in maniera deterministica malattia e opera d’arte.

Vita, opera e malattia in Vincent Van Gogh

Tra i molti casi, un esempio per eccellenza è sicuramente costituito da Vincent Van Gogh. Impossibile esaurire in poche righe un ritratto esaustivo del personaggio, ma sicuramente si possono citare alcuni esempi particolarmente significativi di come, sebbene la sua arte sia indubbiamente collegata alle sue vicende personali, non sia al tempo stesso riducibile a sintomo della sua patologia mentale.

Vincent nasce il 30 marzo 1853, in perfetta coincidenza con la data di morte di suo fratello, avvenuta un anno prima. Al fatto già di per sé curioso, si aggiunge la scelta da parte della madre di dargli lo stesso nome del suo predecessore defunto. Questo nome, certamente non casuale, di certo influirà sulla percezione dell’artista nel sentirsi un surrogato, un senza identità se non quella che il fratello morto sembra avergli cucito addosso.

A questo proposito, come sottolinea Jacques Lacan, la scelta del nome da dare al figlio rappresenta infatti una manifestazione implicita del desiderio dei genitori di incidere sulla vita del nuovo nato. Di dargli una identità che loro si sono precedentemente configurati nelle loro aspettative. È una prima forma di alienazione quindi, nella quale il bambino si ritrova immerso senza che gli venga data precedentemente facoltà di scelta.

Questa mancanza di un’identità, di chiarezza rispetto al proprio ruolo, traspare ad esempio in una lettera al fratello Theo, nella quale arriva a definirsi un “cane randagio”. Una creatura a cui non è stato assegnato né un posto né un ruolo che possano dargli nella vita un senso o uno scopo.

In questa prospettiva si può forse leggere un parallelo tra l’artista e i suoi dipinti che hanno come soggetto vecchi scarponi abbandonati e ormai in disuso, poiché proprio così egli percepisce se stesso. Come una sorta di residuo, di scarto che ormai non ha più nessun possibile ruolo nel mondo.

Viceversa, questo non costituì un freno da parte dell’artista nella ricerca di una sorta di redenzione, effettuata sempre attraverso la sua arte.

Le tinte cupe delle opere iniziali vanno via via schiarendosi verso quello che diverrà il celebre “giallo Van Gogh”. È come se egli abbia cercato di compiere una sorta di viaggio iniziatico verso la luce, dove gli splendenti campi di grano e i girasoli rappresentavano la terra promessa che tanto disperatamente stava cercando.

la siesta_van gogh

Il famoso episodio in cui egli arrivò a mangiare il colore giallo direttamente dal suo tubetto parla da sé: così come la bellezza di quel giallo gli donava sollievo dal dolore, introiettato nel suo corpo avrebbe dovuto agire come un farmaco, guarendolo tramite la luce che avrebbe portato dentro l’abisso della sua disperazione.

Detto questo, per quanto le opere di Van Gogh siano testimonianza di quello che è stato il suo mondo interiore, esse non sono certo riducibili ad un sintomo. Hanno uno stretto legame con la vita che ha condotto e i traumi che lo hanno segnato, ma al tempo stesso esse costituiscono uno straripamento, una sproporzione tra la singolarità del suo io e la sua biografia.

Questa eccedenza ineliminabile, è lo spazio in cui l’opera si distacca dal suo creatore e acquista una sua autonomia, una singolarità attraverso la quale parla in modo differente a chiunque le si ponga davanti.

La bellezza e la profondità dei cieli stellati e dei campi d’oro dipinti da Van Gogh, continueranno sempre a vivere negli occhi di chi le contempla.

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