“Alla fine, il mio percorso personale è simile a quello dell’antropologia. Siamo passati entrambi dall’epoca della decolonizzazione a quella della globalizzazione. Io iniziai nel 1965, in Costa d’Avorio. Con determinazione, ma con un po’ di timidezza, studiavo un villaggio fra mare e laguna a un centinaio di chilometri da Abidjan. Però le società indigene di cui si occupavano gli antropologi allora sono in via di sparizione. La riflessione teorica sulla società globalizzata ha sostituito la ricerca etnologica sul territorio”.
Con queste parole il celebre antropologo francese Marc Augé riassume la sua vita e le sue opere in una intervista al quotidiano La Stampa, rilasciata in occasione dell’uscita del suo libro L’antropologo e il mondo globale, (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2013).
Famoso per le sue ricerche sulla morte, la malattia e le religioni in Costa d’Avorio e nel Togo, Augè ha poi approfondito i suoi studi sui moderni spazi di aggregazione elaborando la teoria del ‘nonluogo’, neologismo proprio da lui coniato.
I ‘nonluoghi’ sono quegli spazi topografici di passaggio e veloce circolazione di beni e persone che non hanno storia, identità e non permettono l’instaurarsi di relazioni come gli autogrill, centri commerciali, campi profughi. Come ben raccontato nella sua opera Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, nei ‘nonluoghi’ migliaia di persone si incrociano senza entrare in relazione, in una condizione estraniante in un eterno presente che non sa inglobare il passato e la cultura al contrario dei ‘luoghi antropologici’.
Alle sue ricerche antropologiche, Augè accompagna sempre interessanti riflessioni su ciò che accade nel mondo, come accaduto recentemente con gli attacchi a Parigi.
In un’intervista piena di emozione rilasciata al quotidiano La Repubblica, Augè fornisce un’analisi lucida e appassionata dei fatti accaduti, soffermandosi sulla politica francese.
“Quando cerchiamo le cause di questa follia terrorista, parliamo sempre d’estremismo tendendo ad escludere o a minimizzare il movente religioso. Cerchiamo di distinguere la religione “buona” dalla sua lettura “cattiva”. Tutto ciò è vero, ma sono un po’ stanco di questo discorso. Occorre avere il coraggio di dire che nella religione c’è probabilmente qualcosa che autorizza questa violenza. Chi invoca la jihad fa parte di un movimento che vuole imporre la sua fede al mondo intero. E non appena una religione monoteista pratica il proselitismo diventa pericolosa. Come è accaduto per il cristianesimo durante l’epoca coloniale. […] Bisogna evitare di trasformare una comunità religiosa in un capro espiatorio e in particolare non bisogna attribuire la responsabilità di simili atti ai singoli musulmani. Ma non si può ignorare che questa violenza cerca una giustificazione in alcune interpretazioni dell’islam, che vanno denunciate come gli Stati che le difendono in maniera diretta o indiretta “.
About The Author: Valentina Dascanio
La passione per la consulenza filosofica è nata fin dall'università poiché la filosofia è di tutti e può essere utile per affrontare ogni dinamica quotidiana, personale o sociale. Alla luce di questo pensiero nel blog mi occupo in particolare di tematiche che riguardano la società , la politica sia a livello nazionale che internazionale.
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