Ricominciare. 10 tappe per una nuova vita è l’ultimo libro della pedagogista e filosofa Laura Campanello. Edito da Mondadori, nasce in continuità agli altri due volumi, Sono vivo ed è solo l’inizio (Mursia 2013) e Leggerezza (Mursia 2015) e rappresenta una testimonianza forte e plurale che si può rinascere, per scelta o per necessità, anche nelle situazioni più impensabili.
Il testo è formato da 10 capitoli in ciascuno dei quali si alternano parti più teoriche, racconti e piccoli suggerimenti per iniziare un percorso di rinascita.
In occasione dell’uscita di Ricominciare ho avuto il piacere di dialogare con Laura Campanello, alla quale ho posto alcune domande sulle tematiche principali del suo libro.
Nel libro sottolinei spesso che “il momento giusto di rinascere è adesso”, che cosa intendi con questa affermazione?
È sempre possibile decidere ad un certo punto di rinascere o di permettere che la rinascita avvenga, senza dover aspettare di sbollire tutta la rabbia o la delusione. È una scelta di disponibilità a lasciare che le cose accadano ma allo stesso tempo anche di responsabilità nel fare proprio quei movimenti che genereranno nuove possibilità e permetteranno un allontanamento da ciò che non è più vitale per noi.
Presenti dieci storie di persone che hanno scelto di invertire la rotta dopo un evento doloroso e inaspettato. Quanto conta in questi casi il coraggio?
Credo sia un atto di coraggio quel piccolo movimento iniziale che porta ad allontanarti da ciò che è noto e permette di aprirti a ciò che invece è ignoto.
Penso a quelle persone in lutto o che hanno perso il lavoro in maniera inaspettata in un’età in cui è difficile mettersi in gioco: se si accetta che ci può essere una fase depressiva e di smarrimento, questa può diventare un momento trasformativo. È il coraggio di stare fermo, che purtroppo la società in cui viviamo fa fatica ad accogliere.
La rinascita accade se siamo noi stessi per primi a lasciarla accadere.
Ad un certo punto del libro tu scrivi che “adottiamo la fatica come stile di vita”, da cosa deriva la convinzione che sia la fatica a dare valore allo cose che facciamo?
Lo si nota fin dalla scuola primaria, in cui il piacere nell’apprendimento non viene mai preso in considerazione perchè il bambino deve fare fatica e l’insegnante tende più a mortificare che a motivare. Viviamo in una cultura sacrificale per cui se siamo contenti di ciò che facciamo o se abbiamo del tempo libero, ci assale immediatamente il sospetto che qualcosa non vada.
È la società della prestazione per cui se ci dedichiamo alla leggerezza e alle nostre passioni, stiamo perdendo tempo e non stiamo guadagnando abbastanza soldi.
Si può vedere questa narrazione, diventata rassicurante e giustificatoria, anche nella concezione contemporanea del lutto per cui dopo due giorni dal funerale del marito sei già a lavorare o, dopo un giorno dal funerale della mamma, il bambino è già a scuola. In questo c’è una parte di paura ma anche l’imperante narrazione sociale del chi si ferma è perduto.
Io credo invece l’esatto contrario, cioè che sia necessario fermarsi per avere la possibilità di rinascere. Nelle nostre fragilità ci possiamo umanamente incontrare e tessere relazioni autentiche, altrimenti restiamo sepolti dalle maschere.
Al termine del suo percorso il protagonista di un tuo racconto si chiede se sia giusto sentirsi sollevati, come se si dovesse chiedere il permesso a qualcuno per stare bene…
Purtroppo al giorno d’oggi c’è una tale poca conoscenza di come si sviluppa un percorso di lutto che le persone non hanno qualcuno in cui riconoscersi. Nessuno parla del lutto, tutti si nascondono perchè bisogna dire che va tutto bene, che stiamo benissimo e che ci risposeremo subito.
In realtà bisognerebbe iniziare a condividere di più questi vissuti, ma la maggior parte della gente fa fatica a stare vicino ad una persona che sta attraversando una fase depressiva, ha paura di farsi contaminare dall’ombra e così si alimenta un divario tra chi non ha mai vissuto momenti bui e chi invece li ha incontrati nell’arco della propria vita.
Questo è un obiettivo che si è posto per esempio il movimento della Death Education e anche la filosofia.

Alla fine di ogni capitolo proponi una pillola pratica di scrittura, che potere ha per te la scrittura?
È innanzitutto un esercizio di centratura e di pulizia di tutto ciò che è superfluo, perchè la vista e il sentire si affinano; dopodiché è un grosso esercizio del limite perchè la scrittura richiede una scelta di parole, dell’orientamento che vuoi dare alla frase e un pensiero precedente alla scrittura stessa.
Per me rappresenta un punto d’appoggio che mi permette di uscire dall’ombra e trovare una nuova direzione, ma è giusto che per altri lo siano la meditazione, lo sport o la pittura. L’importante è trovare una pratica il più regolare possibile, altrimenti è molto facile perdere la centratura proprio perchè la quotidianità ci travolge ed è normale perdere l’abitudine.
In quarta di copertina c’è scritto “esercizi e racconti per ritrovare la bussola e rinascere a una vita felice e consapevole”. La consapevolezza porta sempre ad essere felici?
Assolutamente no! Però se riesci a coltivare e mantenere un certo livello di consapevolezza, quando sei felice te ne accorgi di più e quando non sei del tutto felice, hai almeno la serenità e la quiete di accettare che la vita non è fatta solo di momenti belli. L’importante è rimanere sufficientemente aperti e fiduciosi che la vita è un movimento ondulatorio per cui ad una fase negativa può seguire una positiva.
About The Author: Anna Pellizzari
Sono consulente filosofico e aiuto le persone a mettere in pratica la filosofia. Organizzo laboratori di filosofia con bambini e ragazzi, conduco caffè filosofici e corsi su misura in vari contesti, sono appassionata di tutto ciò che ruota attorno alla salute mentale.
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