“Il piacere estetico consiste in gran parte nel fatto che, immergendoci nello stato di contemplazione pura, ci liberiamo per un istante da ogni desiderio e preoccupazione. Ci spogliamo in un certo qual modo da noi stessi, non siamo più l’individuo che pone l’intelligenza al servizio del volere”

Arthur Schopenhauer

La funzione delle grandi domande della filosofia, come la storia del pensiero dimostra, non è mai trovare una risposta definitiva ma porre continuamente se stesse come eterne generatrici di nuove domande.
L’opera “Senso della vita e abbandono: viaggio tra filosofia, letteratura e religione” di Vincenzo Sorrentino affronta diverse tematiche, ma a due concetti in particolare viene dato maggior rilievo: in cosa consiste il senso ed il significato dell’esistenza? È possibile tracciare una linea di demarcazione e definire in modo distinto questi due concetti?

Il susseguirsi nei vari capitoli di testi filosofici, letterari e religiosi, come il titolo suggerisce, ci fornisce il caleidoscopio di risposte che nei secoli sono state tentate nei confronti di questo grande interrogativo, poichè ovviamente non è possibile dare una risposta univoca. Anzi, si potrebbe dire che tante sono le risposte quante le individualità che si sono poste il problema.

Senso e significato

Prima di tracciare una distinzione tra i termini di senso e significato, è necessario separare i due concetti da quello di scopo: lo scopo ha infatti la funzione di guida, pone se stesso come motore d‘azione, ma è tutt’altra cosa rispetto al senso o al significato.

Identificando questi concetti, ci si troverà innanzi allo smarrimento ed alla sensazione di vuoto che si prova una volta raggiunto un obiettivo che da lungo tempo ci si era posti innanzi. Raggiunto uno scopo o esaudito un desiderio, se abbiamo commesso l’errore di identificarlo col senso della nostra azione, ci porterà infatti all’inesorabile domanda: e ora? Che senso ha avuto tutto ciò? Il senso prescinde quindi sia dallo scopo che dal significato.

Circa il significato della propria esistenza, si potrebbe invece dire che non è propriamente qualcosa di intrinseco all’individuo. Vivendo in una società, ognuno di noi si muove in un contesto simbolico, in una rete di significati che costituiscono un codice di linguaggio e di pensiero all’interno del quale ci muoviamo e comunichiamo.
Solo grazie a questo contesto simbolico comune, siamo in grado di costruire la nostra identità, e di essere riconosciuti dai nostri simili.

Il significato che diamo a noi stessi si lega quindi alla capacità di inserirsi in questo contesto, e di trovare al suo interno il nostro ruolo specifico. Il significato non è qualcosa che creiamo intenzionalmente, perchè prescinde dalla volontà individuale. É una condizione in cui ci troviamo collocati, e che in un certo senso ci precede e ci dà la possibilità di svelare noi stessi.

La morte come limite ultimo

Un denominatore comune ineliminabile da ogni esistenza tuttavia esiste: la morte si pone in questo contesto come elemento livellatore, poichè ogni significato che incarniamo ed aspettativa riposta nel futuro sono destinati inesorabilmente al dissolvimento.

Vista in questa prospettiva, tutto sembra vanificarsi, ogni scelta sembra diventare inutile ed ogni scopo da raggiungere perde di attrattiva. Viene quindi a porsi il problema del senso: esso, a differenza del significato, è qualcosa di intrinseco all’individuo. Non può essere cercato al di fuori. Ma anche circa il senso, si pone la comune linea di demarcazione costituita dalla morte.

Se ogni azione, pensiero, volontà individuale è destinata ad un termine, che senso può avere il fugace spazio temporale incarnato tra nascita e morte? Questa domanda porta a un bivio, dove da un lato si pongono le dottrine teleologiche professate dalle religioni, e dall’altro il pensiero ateo e materialista.
Chi aderisce ad una fede (ma volendo anche chi si professa agnostico) non vede infatti la morte come un termine ultimo, ma come un momento di transito oltre il quale può proiettare la sua speranza e il senso della sua vita terrena. Le buone azioni avranno una ricompensa divina, ed anche i malvagi, tramite il pentimento, potranno sperare nel perdono e nella redenzione finale.

L’ateo invece, qualsiasi azione intraprenda o nobile scopo si ponga, si ritrova a render conto del fatto che un giorno tutto ciò cesserà di esistere. Muore il re, muore il povero e la morte ricorda loro che sono fatti della stessa materia. Che indipendentemente dalla loro collocazione sociale, li attende il nulla.

La Bellezza

Ma in questa prospettiva, che sembra inesorabilmente destinata ad arenarsi nel nichilismo assoluto, anche all’ateo viene dato un possibile sentiero di redenzione: esso consiste nella contemplazione disinteressata e spontanea della bellezza. Questa si rivela come un’epifania, senza condizioni e senza preavviso, e pone l’osservatore in una posizione di contemplazione assoluta che si beatifica del piacere della pura bellezza.

In questi momenti di estasi viene varcata la soglia del principio d’individuazione (ex–stasis, stare fuori di sè) nel quale si è confinati sin dalla nascita, ed è reso possibile per un breve istante l‘unione con l’oggetto contemplato.
Solo questo salva l’uomo dalla sua condizione di mortalità, poichè lo immerge totalmente nel presente, eternizzando l‘attimo con la sua bellezza e cancellando ogni paura riguardante il futuro, compresa quella della morte.
Questa è la bellezza che celebrano i poeti, i letterati, i filosofi e gli esteti di ogni tempo. Solo lei è in grado di dare senso all’esistenza.

Nietzsche, con la sua magistrale sensibilità e capacità di sintesi, ha espresso questo concetto nell’aforisma secondo il quale “solo come fenomeno estetico l’esistenza e il mondo appaiono giustificati“. In questa prospettiva, trova una sua giustificazione anche il dolore, da sempre connesso alla vita. Secondo la filosofia nietzschiana, l’inganno del pensiero religioso consiste nel fatto di considerare il dolore come una tappa necessaria, un male da reggere ed esibire con orgoglio affinchè l’uomo, seguendo le sofferenze di Cristo, possa esser salvato dal dio redentore.

Ma l’ideale a cui ci riporta invece l’antico Amor Fati tanto caro a Nietzsche ed alla grecità, ci ricorda che più è profondo il dolore e più grande sarà la bellezza che sarà in grado di generare. Solo tramite questa consapevolezza ed ai momenti di pura beatitudine che ne conseguono, l’uomo potrà dare senso alla sua condizione mortale, alla sofferenza ed alla paura connaturate ad ogni essere umano.

Titolo: Senso della vita e abbandono. Viaggio tra filosofia, letteratura e religione
Editore: Castelvecchi
Anno: 2020
Pagine: 159

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