Il nome di Socrate è inciso nella storia del pensiero, e costituisce una figura di riferimento e di confronto per tutti coloro che sono venuti nei secoli successivi, resa immortale dai dialoghi platonici che ne hanno fatto l’assoluto protagonista e maestro di virtù.

È l’emblema della saggezza antica, impossibile da non stimare per aver unito in sè umiltà, ironia, profonda intelligenza e un incredibile coraggio, persino di fronte alla triste condanna che pose fine alla sua vita.
Ricordato come il più grande educatore del popolo greco, Socrate ha vissuto coerentemente e in prima persona il suo messaggio filosofico, basato sul dialogo, in mezzo ai suoi concittadini e nelle piazze, parlando liberamente con tutti di ogni argomento.

la morte di Socrate-dipinto

Nato ad Atene nel 469 a.C., Socrate entrò ben presto in contrasto sia con i sofisti suoi contemporanei che con il potere costituito.
Le discrepanze con la sofistica furono dovute al fatto che per Socrate l’uomo è una creatura che va indagata nella sua interiorità, nel modo in cui formula un ragionamento e sviluppa un’opinione.

L’indagine svolta dai sofisti è invece più superficiale, l’uomo è essenzialmente un animale politico e l’arte che sta loro maggiormente a cuore è la retorica, intesa come “arte della parola” non necessariamente finalizzata alla ricerca della verità.

Il dialogo socratico

Socrate non è interessato alle tecniche della retorica fine a se stessa, poiché scopo del suo insegnamento è far nascere nell’uomo l’interesse per la conoscenza, stimolarne la curiosità verso il mondo che lo circonda tramite il confronto diretto con l’interlocutore.

Il dialogo è visto come la condizione di base della conoscenza.
La parola è composta da due termini: dia e logos. Logos significa pensiero/ragione, e anche parola; dia significa “in mezzo a”. Quindi dia-logos vuol dire che ragione o significato non sono il monopolio di una parte, ma affiorano nel rapporto o nella comunicazione tra gli opposti.

Vita e condanna a morte

Vissuto nel periodo della democrazia ateniese, Socrate fu testimone di grandi svolte politiche: terminata la Guerra del Peloponneso, che vide Atene e Sparta fronteggiarsi dal 431 a.C. al 404 a.C., si costituì il cosiddetto “regime dei Trenta Tiranni”.

Questo regime filo spartano ricostruì una democrazia molto conservatrice, che limitò le libertà individuali molto più di quanto la tradizionale democrazia ateniese usava fare, e che infatti finì per mettere a morte Socrate.

Ma com’è possibile che quel sistema democratico condannò a morte il suo cittadino migliore?

Socrate infatti fu il cittadino modello sotto tutti i punti di vista: prestò servizio come soldato, mostrando grande fedeltà e capacità di resistenza al dolore, nonché coraggio davanti ai pericoli. Coraggio che ha mostrato sino all’ultimo giorno della sua vita, perfino di fronte alla condanna a morte.

Non sono mai esistiti motivi validi o razionali per la sua condanna: il problema fu il rapporto con la classe governante.
Con la sua filosofia sul campo, ha stimolato al dubbio e al pensiero critico tutti gli ateniesi, invitandoli a mettere in discussione anche le regole precostituite. Questo lo pose inevitabilmente in conflitto con la classe dominante, che certo non desiderava esser messa in discussione dai suoi cittadini.

La sua visione della politica era difatti legata ad una concezione aristocratico – intellettuale del governo. Egli pensava che solo i migliori dovessero assumere le alte cariche politiche, rimanendo quindi sempre scettico riguardo il coinvolgimento in cariche governative di coloro che non ne fossero ritenuti degni.

Da dove venne quindi la celebre condanna?
Furono alcuni membri della popolazione a incriminarlo: nel sistema ateniese della polis era infatti possibile denunciare un libero cittadino con una pubblica accusa scritta su una lavagna affissa davanti ai palazzi governativi, dopodiché spettava alle cariche politiche istituire, se lo ritenevano giusto, un processo vero e proprio.

La vicenda di Socrate rappresenta per eccellenza la crepa che spesso si è venuta storicamente a creare tra gli intellettuali ed il potere, lo stesso potere che spesso finiva per mettere a morte o zittire tutti coloro che osavano opporsi (pensiamo ad Ipazia, filosofa alessandrina vissuta nel III sec. d.C. oppure a Giordano Bruno, Galilei scampò ad una sorte simile solo perchè accettò di abiurare).

So di non sapere

Come sappiamo grazie a Platone e ai suoi dialoghi, Socrate non scrisse mai nulla, poiché credeva nella potenza dell’oralità come strada maestra della conoscenza.

La parola scritta ha la debolezza di depotenziare la ricerca, perché la conoscenza si realizza nell’interrogazione orale, nel dialogo vivo, che mette in connessione gli interlocutori e chiarisce le possibili ambiguità che potrebbe invece presentare uno scritto, di per sé molto più difficile da interrogare.

Platone salva e ci tramanda così la figura di Socrate, con l’ambiguità di base di non rendere mai chiaro se quello che esprime nei suoi dialoghi è il suo pensiero o quello del suo maestro.
Il discorso socratico resta aperto: non trasmette una dottrina ma un metodo d’indagine (per dottrina si intende infatti un insieme di precetti, o principi che vengono trasmessi. Un metodo invece indica un processo a cui attenersi per giungere ad una risposta).

Socrate quindi non dirà mai qual è la verità assoluta, ma si limiterà solo a spiegare come ricercarla.
Diversamente fece Platone, che si spinse più in avanti con la Teoria delle Idee, perché così facendo trasmise una dottrina, una verità assoluta, aggiungendo quindi un contenuto alla filosofia del suo maestro, che si limitava invece a creare una metodologia che permetteva di categorizzare l’oggetto di ricerca.
Il metodo socratico compie quindi un’indagine dentro l’animo umano per arrivare a stimolare la conoscenza, ma anche per indagarne i limiti.

Il famoso detto socratico so di non sapere è il presupposto in base al quale nasce la curiosità, perchè senza di questa, non può esserci progresso nella conoscenza.
La presunzione di possedere una conoscenza assoluta è pericolosa, perché il sottinteso è che non serve mettersi in discussione, risolvendosi quindi nella sterilità di pensiero.

La Maieutica

Il metodo socratico consiste in una serie di domande sempre più mirate, nel chiarimento di concetti, in spiegazioni sempre più approfondite che prima o poi iniziano a far emergere lacune nella capacità di definizione dei suoi interlocutori.

L’oracolo greco della Pizia lo definì il più saggio di tutti gli uomini, poiché vide proprio nella capacità dubitativa la saggezza suprema, in grado di accettare i limiti della conoscenza umana.

Per arrivare a questo, la famosa domanda che continuamente Socrate pone è: “ti esti?” Che cos’è?

Si tratta di una domanda difficile, perché chiede di produrre una definizione, ovvero cosa hanno in comune gli oggetti che chiamiamo con lo stesso termine.
Spesso ad esempio, Socrate chiedeva la definizione delle virtù come il coraggio, la giustizia o l’amicizia e gli interlocutori il più delle volte rispondevano facendo degli esempi. Ma non era questo che intendeva Socrate.

Egli chiedeva una definizione, chiedeva cosa questi concetti avessero in comune. Il problema era trovare una definizione univoca per tutti i singoli casi di quella virtù (se ad esempio chiede cosa sia il coraggio e gli viene risposto “non arretrare di fronte al nemico”, lui obietta che alcune tecniche militari prevedono di arretrare come strategia diversiva, e non per mancanza di coraggio. Come definizione non è quindi corretta.)

Perché è importante definire correttamente la virtù?
Perché non ci si può comportare correttamente se non si conosce bene che cosa essa sia.
Non possiamo essere coraggiosi se non sappiamo in cosa consiste il coraggio.

La definizione deve diventare il modello che ispira le nostre azioni e che ci permette di distinguere tra azioni giuste e ingiuste.
Socrate continua quindi a fare domande, ma non dà mai risposte ai suoi interlocutori, perché dice di non conoscerle.
Il maestro, nella prospettiva socratica, è colui che sa porre le giuste domande, permettendo di scremare tra false conoscenze e luoghi comuni, al fine di far maturare una fondata riflessione personale e critica.

Intellettualismo e volontarismo etico

Con Socrate si istituisce un primato assoluto della parte razionale del pensiero, che ha il compito di regolare le azioni e la vita quotidiana di ognuno.
Esiste un rapporto stretto tra razionalità, conoscenza del bene e della giustizia. E’ un’equazione precisa: se c’è razionalità ben applicata, c’è un gesto moralmente corretto.

L’unico vero male è l’ignoranza. In questo consiste il cosiddetto intellettualismo etico di Socrate: è la capacità della ragione di indirizzare bene le azioni. Il male quindi non nasce dalla volontà di fare qualcosa di malvagio, ma dall’incapacità di governare razionalmente la nostra vita.

Questo percorso ha come fine la felicità, che secondo Socrate è il fine di ogni azione umana.

A questa visione razionalistica del bene, si contrappone invece il volontarismo etico, tipico del pensiero giudaico – cristiano: per agire bene non basta conoscerlo, ma bisogna anche volerlo.

Secondo questa prospettiva, possiamo quindi conoscere il bene ma scegliere volontariamente il male.
Per Socrate al contrario, questo non è possibile, perché chi conosce il bene automaticamente lo sceglie. In quest’ottica, l’unica strada per convertire i malvagi è la conoscenza e il corretto utilizzo della ragione.

Conclusioni

L’ottica socratica potrebbe essere riassunta dicendo: non puoi veramente dire che sai che una cosa è malvagia, se cedi alla tentazione di compierla.

È certamente una visione del problema morale molto lontano dalla nostra sensibilità, essendo la tradizione cristiana basata essenzialmente sul libero arbitrio, poiché senza di questo non avrebbero senso i concetti di merito o colpa, e quindi di salvezza o dannazione.
L’intellettualismo etico contiene in sé il cuore dell’insegnamento socratico: la razionalità e la capacità di ben guidare il nostro intelletto, rappresentano il più grande potere dato all’uomo.

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