Il termine esistenzialismo indica diverse correnti filosofiche che pur eterogenee sono accomunate dall’ attenzione per la situazione esistenziale dell’uomo moderno.
In Europa il movimento ha trovato la sua maggior espressione nel secondo dopoguerra, periodo in cui si respira un clima di generale disillusione: la vita è un insieme di situazioni-limite e l’uomo è un essere finito, condannato, dal passare del tempo, alla morte.
I filosofi vengono richiamati ad una responsabilità radicale nei confronti dell’umanità e della storia.
Il punto di partenza è la situazione concreta del singolo individuo: ognuno è pensatore di se stesso e stabilisce un particolare rapporto con ciò che è altro da sé, gli altri, il mondo o un Assoluto divino.
All’origine di questo complesso movimento vi è la ripresa del pensiero di Kierkegaard che per primo ha esaminato con forza i concetti di singolarità, possibilità, scelta e angoscia. Per il filosofo danese l’esistenza è il nostro modo di essere e dunque vi è un coinvolgimento diretto tra chi pensa e l’oggetto del pensiero.
La meditazione filosofica tende ad assumere un tono personale: il singolo è impegnato nella ricerca del significato e di un metodo di analisi dell’esistenza.
L’esistenzialismo è influenzato in quest’ultimo aspetto dalla fenomenologia di Husserl da cui prende la descrizione obiettiva delle strutture costitutive e invariabili dell’esistenza e il suo carattere di apertura al mondo.
L’esistenzialismo nei romanzi: La Nausea di Sartre
L’esistenzialismo si è collegato fin dall’inizio con l’opera di alcuni romanzieri- filosofi (Dostoevskij, Kafka, Sartre, Simone De Beauvoir, Camus) che hanno manifestato nelle loro opere la problematicità della vita.
È una letteratura che si sofferma a descrivere le situazioni umane: vicende tristi e dolorose, incerte e ambigue. L’esistenza umana appare assurda, precaria, tormentata.
Sartre elaborò il suo pensiero soprattutto negli anni ’40 dopo la seconda guerra mondiale.
La parola chiave della sua filosofia è esistenza, un termine con il quale non si intende la stessa cosa che esistere. L’uomo è l’unico essere vivente consapevole della propria esistenza che si rivela in Sartre paradossale e perfino una condanna.
“Io sono condannato a esistere per sempre al di là della mia essenza, al di là dei moventi e dei motivi del mio atto: io sono condannato a essere libero” (L’essere e il nulla)
Il romanzo La Nausea del 1938 descrive l’esperienza drammatica di un’esistenza incapace di progettarsi verso un futuro possibile e che rimane impigliata nel dato presente. La coscienza perde la propria capacità di dare senso alla realtà e affonda nell’esistenza bruta, vischiosa e assurda.
Se l’esistenza e con essa il mondo non hanno un significato, per Sartre, è la coscienza a donarle un senso.
Ciò comporta tuttavia, tanto una esaltazione della capacità donativa di senso della coscienza quanto una sua drammatizzazione, nel momento in cui ogni significato e ogni valore viene mostrato privo di fondamento oggettivo e rimesso interamente alla libertà della coscienza.
La scoperta di questa assenza di fondamento oggettivo è, appunto, la nausea
“tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare…: ecco la nausea”
La nausea ha però anche un significato positivo: è come un interruttore che accende una luce, un avvio di consapevolezza che mostra a Roquentin, il protagonista del romanzo, una strada da percorrere.
Nella parte conclusiva infatti, nell’attività estetica fondata sull’immaginazione, si intravede una possibilità di salvezza dinanzi al “peccato di esistere”. E tutto ciò ha un significato liberatorio
“sento qualcosa che mi sfiora timidamente e non oso nemmeno muovermi per paura che scompaia. Qualcosa che non conoscevo più: una specie di gioia”.
È nella bellezza della musica, e quindi grazie all’arte che si ha la possibilità di dare un significato all’esistenza, anche se si tratta di una salvezza rigorosamente individuale, relativa al solo artista creatore colto nella sua assoluta alterità rispetto agli altri uomini.
Un letterato e filosofo esistenzialista sardo: Salvatore Satta
Salvatore Satta è stato un pensatore impegnato in una profonda riflessione sulla vita e nella ricerca del senso di essa.
Si può considerare un esponente di un esistenzialismo letterario, espressione di un clima culturale seguito al tramonto dell’ottimismo ottocentesco.
Nel suo capolavoro postumo del 1977, Il Giorno del Giudizio, è possibile rintracciare un pensiero che nasce da una domanda filosofica: comprendere il perché della nostra presenza nel mondo.
Satta si presenta come un filosofo estremamente moderno perché nell’opera letteraria è capace di guidare il lettore nel percorso alla ricerca di un credibile senso della vita e della morte.
Il Giorno del Giudizio è la storia di una famiglia (quella dell’autore) e di una piccola comunità, nei primi decenni del Novecento.
Nuoro non era che un nido di corvi, eppure era, come e più della Gallia, divisa in tre parti.
Intorno ai Sanna ruotano diversi personaggi: notabili, pastori, banditi, preti, vagabondi, prostituite che tra loro hanno dei legami. Quello più profondo che li unisce tutti in un comune destino è la morte.
Satta ripercorre i luoghi di Nuoro, ma il vero luogo del romanzo è il camposanto, meta del percorso dello scrittore tra le vie del paese
Sono stato, di nascosto, a visitare il cimitero di Nuoro. Sono arrivato di buon mattino, per non vedere e non essere veduto.Sono venuto qui,[…] per vedere se riesco a mettere un po’ d’ordine nella mia vita, a riunire i due monconi, a ristabilire il colloquio senza il quale queste pagine non possono continuare, ed eccomi vagare appresso ai fili della luce elettrica in balia di vani ricordi.
Satta fornisce ai diversi personaggi la scena nella quale muoversi e li immagina
Come in una di quelle assurde processioni del Paradiso dantesco sfilano in teoria interminabili […] gli uomini della mia gente.
Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la storia senza storia del loro essere stati. […] E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio per liberarli in eterno dalla loro memoria.
Anche in Satta ritroviamo dunque una possibilità di salvezza che emerge dalla meditazione dell’opera di Dostojevski e che lo porta ad aprirsi verso un responsabilismo nei confronto dell’Altro. In questo possiamo avvicinare Satta a Lévinas che vedeva nell’Altro un soggetto umano, diverso da noi, con una sua autonomia che inizialmente si manifesta come una forma vuota e che via via si riempie di significato.
Ed è proprio durante la visita al cimitero, quando i diversi morti gli si fanno incontro che Satta capisce lo scopo della sua scrittura, il senso dello scrivere che altro non è che liberarli della loro memoria e della colpa di essere stati vivi.
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