“In ogni caos c’è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto”
Carl Gustav Jung
La psicoanalisi è una disciplina in cui confluiscono molte influenze diverse, già presente in nuce nel pensiero di molti filosofi sia antichi che moderni, i quali, ben prima di Sigmund Freud, si erano interrogati su tutto ciò che riguarda la natura umana e le sue facoltà intellettive.
L’origine etimologica del termine “psicologia” deriva dal greco psyché, ovvero spirito/anima e da logos ovvero discorso/studio, ed indica quindi l’analisi dell’interiorità umana.
Ma se è vero, secondo la concezione filosofica inaugurata dal meccanicismo cartesiano, che l’uomo è costituito sia da res cogitans che da res extensa, certamente anche alla scienza medica va parte del merito (la quale tuttavia cercava cause visibili ed organiche di eventuali disturbi psichici).
Indice
Schopenhauer e le origini della psicoanalisi
Come sappiamo, Freud è considerato il padre della psicoanalisi, ma i presupposti da cui è partito affondano le loro radici nella filosofia.
Egli considera infatti Arthur Schopenhauer il suo precursore, in quanto ha introdotto nella sua opera “Il mondo come volontà e rappresentazione”, il concetto di volontà di vivere, che Freud tradurrà in termini psicanalitici con la sua teoria dell’inconscio.
Schopenhauer descrive questa volontà come l’essenza più profonda del nostro essere, un impulso irrefrenabile e prepotente che ci spinge a perpetuare la vita, indipendentemente dalle condizioni favorevoli o meno che ne fanno da sfondo.
Secondo la sua visione, non siamo solo intelletto e autocoscienza, come vuole in molti casi la filosofia dei secoli precedenti (pensiamo alle pretese assolutistiche che l’Illuminismo ha attribuito alla ragione), ma siamo innanzitutto impulsi dettati da una volontà cieca, completamente irrazionale, che va ben oltre la nostra capacità di determinazione.
Questa volontà costituisce non solo l’essenza della natura umana, ma di tutta la natura in generale. Un fiore sbocciato in una crepa dell’asfalto, non nasce secondo un criterio di sopravvivenza o scopo: nasce per il semplice fatto che in quella crepa ha trovato uno spiraglio per la vita.
L’uomo ha tentato di dare una veste razionale al perpetuarsi della vita, ma nel profondo essa è nient’altro che impulso irrazionale.
Partendo da queste considerazioni, Freud ha fondato il concetto di Inconscio.
Ogni individuo presenta una doppia natura: una risponde alle esigenze dell’individuo, l’altra a quelle della specie a cui appartiene, che ha come unico scopo perpetuare la vita.
L’uomo in questa prospettiva, non è altro che un esecutore degli ordini impartiti dalla sua natura. Coesistono in lui due forze di base, che Freud chiama rispettivamente Eros e Thanatos: esse corrispondono rispettivamente alla pulsione riproduttiva e alla pulsione aggressiva, necessaria per difendere sé stessi e la prole.
Ma l’uomo razionale, l’io soggettivo, fatica ad accettare questa sua parte nascosta, ed è in continuo conflitto con essa.
Freud e la tripartizione della psiche
Per Freud la psiche è divisa in tre parti che definisce rispettivamente Es, Io e Super-Io.
1. L’Es rappresenta l’inconscio, la parte sommersa alla coscienza vigile, ed è il principio fondante della personalità.
La parte conscia della nostra psiche, è invece solo una punta di un iceberg, una piccola isola rispetto alla grandezza dell’Es.
Proprio per questo, nell’ottica psicoanalitica, l’inconscio è l’accesso privilegiato attraverso il quale studiare l’individuo, in quanto è solo lasciandolo emergere che è possibile capire da quale disturbo psichico una persona sia afflitta.
L’inconscio emerge nella vita quotidiana tramite piccoli lapsus verbali ed atti mancati, ma il terreno privilegiato per accedervi è l’analisi dei sogni. Freud nel corso della sua terapia fa largo uso dell’ipnosi, della libera associazione di idee e, successivamente, dell’analisi del mondo onirico per l’appunto.
2. La coscienza si identifica invece con l’immagine razionale che abbiamo di noi stessi, ed è proprio questo soggetto percettivo che Freud chiama Io e che quotidianamente agisce all’interno della società, organizzata secondo regole condivise.
3. La società e l’insieme delle regole rappresenta invece quello che Freud definisce il Super-Io.
La coscienza, oppure “Io” individuale quindi, si ritrova sempre a dover mediare tra queste due istanze: da un lato l’inconscio pulsionale, amorale e irrazionale e dall’ altro l’insieme di regole della società in cui ovviamente le pulsioni non possono essere liberamente sfogate.
Restare in equilibrio tra queste due forze, costituisce per l’Io una lotta continua.
E’ bene sottolineare che Freud, quando parla della natura umana, non le attribuisce istinti ma pulsioni.
Un istinto è una risposta rigida ad uno stimolo, ed è tipico del mondo animale (un predatore insegue per istinto la preda che scappa).
La pulsione invece, è una tendenza molto meno definita, che può essere soddisfatta o sublimata in molti modi (ad esempio, la pulsione sessuale nell’uomo non ha necessariamente la procreazione come fine ultimo).
Resta comunque il fatto che le pulsioni devono essere tenute continuamente a bada e conciliate con le esigenze della società.
Lo sviluppo mentale infantile
Il bambino inizia ad interiorizzare sin da piccolo attraverso i genitori concetti come tu devi / tu non puoi / tu puoi se.
Il livello di interiorizzazione delle regole cambia poi con la sedimentazione dell’esperienza al riguardo.
Se ad esempio la madre pone un determinato divieto al bambino, potrebbe essere che al momento iniziale il bambino rispetti la regola solo in presenza della madre per non ricevere una punizione.
Il bambino applica quindi una scelta morale eteronoma (sta alle leggi ma solo in presenza di un sorvegliante, accettando però una legge che non rispetterebbe, in quanto non ne capisce il senso).
Quando invece il bambino interiorizza il divieto sia in presenza della madre che in solitudine, significa che ha creato in sé una sorta di controllore interno, una morale autonoma quindi, secondo la quale il bambino è in grado di limitarsi da solo quando le sue pulsioni entrano in conflitto con le regole esterne definite come Inconscio sociale. Si tratta di regole che vengono profondamente interiorizzate e che ognuno di noi applica in modo automatico.
Ognuno di noi sa ad esempio, che prima di uscire di casa deve vestirsi e che se vuole essere compreso dagli altri, deve esprimersi secondo un codice linguistico condiviso.
Tutte queste regole vengono applicate automaticamente, non necessitano di una riflessione.
Le nevrosi
Questo continuo lavoro di mediazione tuttavia non sempre viene sopportato, e cede, si sviluppano le nevrosi, ed emerge la follia.
Le nevrosi indicano dei problemi non risolti al momento in cui si sono verificati, ma che vengono successivamente rimossi dal livello conscio, restando però attivi a livello inconscio.
Continuano ad agire e a tornare allo scoperto nella vita quotidiana, ma sotto altra forma, come fanno anche, ad esempio, i lapsus o gli atti mancati.
Uno degli scogli che la teoria psicanalitica ha dovuto affrontare in fase iniziale, sta nella visione scientifica positivista del periodo, secondo la quale la scienza doveva distaccarsi completamente dalla filosofia e dalla metafisica, e limitarsi esclusivamente alla considerazione dei fatti concreti. Nel caso di un disturbo mentale, non accettava che ad esso non corrispondesse anche una lesione, o una malformazione organica visibile.
La forma del desiderio e le fasi dello sviluppo
Freud concepisce l’uomo come un animale desiderante, riferendosi al fatto che vive desiderando ciò che ancora non possiede.
La psiche quindi si determina sul senso di mancanza, o di difetto. L’adulto rispetto al bambino è abituato ad un tempo di latenza tra la nascita del desiderio e la sua soddisfazione.
Il bambino invece non conosce questo senso di mancanza, in quanto le sue esigenze vengono subito soddisfatte.
Per arrivare allo sviluppo adulto, il bambino attraversa tre fasi.
1. Nella prima la sua libido, ovvero la sua capacità di provare piacere, è concentrata sulla bocca.
É il piacere legato all’alimentazione, e questa fase infatti è definita come fase orale e dura per i primi due anni di
vita.
2. La seconda fase è detta anale. Qui il bambino inizia ad avere il controllo del proprio corpo e la prima forma di controllo che esercita è la capacità di trattenere o lasciar andare le feci.
Se la prima fase rappresenta il ricevere, il poter possedere qualcosa (il cibo), la seconda fase rappresenta una prima forma di potere decisionale sul mondo.
Queste fasi devono essere superate in modo corretto e senza traumi, poiché altrimenti il prezzo da pagare sarà in età adulta lo sviluppo di disturbi comportamentali legati a questi ambiti.
I disturbi alimentari, ad esempio, sottendono al rapporto col cibo, la messa in questione del proprio diritto di esistenza. Chi soffre di anoressia, in casi estremi si priva del cibo fino alla morte. L’intransigenza verso sé stessi e il proprio corpo, porta a credere di non esser degni né di esistere né di relazionarci al prossimo.
Riguardo la seconda fase invece, il senso di potere potrebbe travalicare i limiti naturali e sfociare in una personalità costantemente bisognosa di un controllo assoluto per sentirsi appagata.
3. La terza fase è la più complessa forse ed è quella definita edipica.
Rappresenta la relazione complicata che il bambino intrattiene per un certo periodo con il genitore di sesso opposto.
Freud prende come esempio la nota tragedia di Sofocle, in cui Laio, sovrano di Tebe, abbandona suo figlio appena nato dopo aver ricevuto dall’indovino Tiresia una tremenda profezia: quel bambino avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre. Nonostante l’abbandono, anni dopo la profezia si realizza in pieno.
Il senso di questo mito varia in base ai molti filosofi che l’hanno analizzato, ma tradotto in un linguaggio psicoanalitico, rappresenta il fatto che in questa fase il bambino si innamora davvero a suo modo, seppur nella sua innocenza, del genitore di sesso opposto, e vede nella controparte del suo stesso sesso un rivale che ostacola il raggiungimento del suo oggetto del desiderio.
Da qui per un periodo si crea una relazione frustrata col genitore in questione, ma da questa fase si delineano due dimensioni fondamentali della psiche: il senso di identità e quello di relazione. L’identità si delinea solo grazie al confronto con l’altro, senza confronto non avremmo infatti la possibilità di definire nemmeno noi stessi.
La relazione invece, serve per creare le strutture mentali che ci permettono di interagire e relazionarci in maniera corretta al prossimo.
Queste forme mentali si susseguono e si strutturano fino ai 6 anni circa, fase fondamentale poiché ciò che avviene qui resterà come una base indelebile anche nel corso della vita adulta.
Freud nel 1929 scrive il saggio Il disagio della civiltà, nel quale ipotizza che la nostra struttura sociale sia troppo severa e repressiva nei riguardi degli impulsi umani, e che il bisogno di sicurezza sul quale si impronta la società, se troppo forte, schiaccia il bisogno di libertà innato nell’uomo.
Come osserva in proposito Umberto Galimberti, oggi la tecnica e le intelligenze artificiali, mostrano un modello superiore a quello umano, almeno in apparenza.
Un modello che non sbaglia, che non dimentica, che non si ammala e che non ha bisogno di momenti di pausa o vacanza dal lavoro.
Questa perfetta efficienza, sembra quasi aver creato una nuova forma mentale, una sorta di inconscio meccanico che ci identifica con la nostra funzione: siamo quello che facciamo.
Quando conosciamo una persona nuova, non di rado come prima domanda le chiediamo qual è il suo lavoro, e spesso finiamo per creare una sorta di identità tra uno stereotipo lavorativo e un certo tipo di personalità associata (la personalità si esaurisce quindi nella funzione che svolge).
In questa prospettiva, il soggetto viene messo tra parentesi.
Jung e l’inconscio
A questo proposito, si introduce ora la figura di Carl Gustav Jung, che si è posto in maniera nettamente antitetica a questo genere di modello. Jung parla infatti del principio di individuazione che consiste proprio nel riuscire a realizzare la nostra vocazione, la quale permette alla singolarità individuale di emergere.
Secondo Jung, ognuno di noi porta una maschera diversa a seconda delle situazioni in cui si trova. “Persona” non a caso, è un termine latino che significa “maschera”.
La maschera è un simbolo, poiché indica la personalità che stiamo interpretando il quel determinato momento. Sul lavoro si ha la maschera della professionalità, mentre coi figli si passerà ad una maschera genitoriale, diversa a sua volta da quella tenuta con gli amici, e via dicendo.Ogni persona è formata quindi da una serie di figure, che di volta in volta si avvicendano a seconda del bisogno.
Tra tutte queste personalità, una però si delinea in modo più stabile rispetto alle altre e ha in un certo senso la funzione di coordinare tutte le varie maschere che si indossano.
La stabilità psichica si definisce tale, finché l’io soggettivo dominante riesce a dirigere e a coordinare correttamente le altre personalità.
Il problema sorge quando l’io perde il controllo, e le personalità iniziano ad emergere fuori dal giusto contesto imponendosi su tutte le altre: ecco la schizofrenia (termine creato da Eugen Bleuler, psichiatra svizzero che ha ridefinito clinicamente i concetti di schizofrenia e autismo).
La lotta contro la follia
In questo caso non si parla più di nevrosi, ma di psicosi che indica un tipo di disturbo psichiatrico, espressione di una alterazione totale dell’equilibrio psichico dell’individuo, con conseguente incapacità di distinguere tra mondo interiore ed esteriore. In questo caso si possono verificare anche disturbi del pensiero come deliri e allucinazioni.
Siamo portati a pensare che la cosiddetta “normalità” sia un qualcosa di stabile, che una volta costituito non corra il pericolo di essere destabilizzato.
Nulla di più sbagliato. L’Io secondo Jung, intraprende una lotta quotidiana per mantenere la supremazia rispetto alle altre maschere che continuamente cercano di prendere il sopravvento.
La follia, come osserva Umberto Galimberti, anche se non emerge nella vita quotidiana, la conosciamo tutti poiché quando entriamo nel mondo dei sogni vengono meno tutti i principi logici di identità e non contraddizione, di causalità, spazio e tempo a cui siamo abituati nello stato vigile.
Appena svegli infatti, ciascuno di noi necessita di un lasso di tempo in cui si riadatta al mondo della veglia, necessario per recuperare l’ordine mentale.
Lo scenario della follia resta in ogni caso il sottosuolo della nostra personalità, ed è unico e irripetibile per ognuno di noi.
In altre parole, la struttura della follia è unica per ogni individuo, mentre il contesto simbolico di regole in cui siamo immersi è uguale per tutti.
Inconscio e mitologia greca
Jung per rappresentare la struttura inconscia, usa come immagine di riferimento la mitologia greca. L’uomo non è solo sessualità ed aggressività, come sosteneva Freud.
L’inconscio è l’indifferenziato, ed è molto più potente delle nostre capacità razionali.
Questo indifferenziato trova ad esempio una figura esplicativa nella violenza degli dei antichi, che simpatizzavano per gli eroi, prendevano le loro parti e li inducevano a compiere stragi e crimini di ogni genere. Nell’antichità infatti, la violenza era spesso attribuita agli dei, in quanto era un principio dissolvente e disgregante delle comunità umane, le quali invece, secondo il pensiero razionalista greco, erano comandate dalla ragione.
Nella tragedia greca delle Baccanti di Euripide ad esempio, quando Dioniso entra a Tebe, tutti perdono il senno e viene meno l’ordine sociale. Tuttavia la divinità deve andarsene di sua iniziativa, nessuno può allontanarla con la forza. Quando Dioniso lascia Tebe, questa torna subito all’ordine.
Il concetto di divinità legata al sacro per gli antichi (quello usato appunto da Jung come termine di paragone con la sua interpretazione del concetto freudiano di inconscio) è molto diverso rispetto a quello attuale: le divinità, dovevano essere appagate per non portare disgrazie.
Raramente erano benevolenti nei confronti degli uomini. Sacer, è un termine latino che significa “ciò che è separato / non più umano”.
Nella Roma monarchica, il diritto era addirittura legato alla religione. Ai tempi esisteva una sanzione penale e religiosa molto particolare, prevista per chi avesse turbato, con un proprio comportamento, la pax deorum, ossia l’equilibrio fra la cittadinanza romana e i suoi dèi: la sacertà.
L’unico modo per riparare l’offesa recata al dio era espellere il colpevole dalla comunità consacrandolo a Giove. In questa maniera, il reo dichiarato “sacro”, veniva spogliato di ogni diritto. Non veniva però sacrificato ritualmente: più semplicemente, non era più considerato un uomo, e chiunque poteva ucciderlo impunemente.
Da qui il termine “sacro” secondo la concezione all’interno della quale si muove la psicologia junghiana.
Il simbolo
Vanno distinti due concetti fondamentali riguardo la lettura che danno Freud e Jung rispetto all’interpretazione del concetto di simbolo.
Per Freud equivale a un “segno”. L’esempio classico potrebbe essere: sognare un campanile, significa sognare un fallo.
Esiste quindi una perfetta corrispondenza tra sogno e simbolo.
Per Jung invece la faccenda si complica, perché i simboli vengono assunti nella significazione greca di syn-ballein (che significa unire, armonizzare, mettere insieme).
“Simbolo” significa quindi l’unione di diversi elementi che si assemblano e creano di volta in volta un significato diverso per ognuno di noi.
Non si dà corrispondenza universale tra sogno e simbolo: i simboli creano sempre significati diversi.
Anzi, potrebbero esser definite come eccedenze di significato, e rappresentano ad esempio il terreno dove operano i poeti, gli artisti, e tutte le personalità creative in generale.
Essi non devono rispettare il principio di identità e non contraddizione. I poeti e gli artisti sono tutti “folli” in questo senso, in quanto non rispettano il significato originale delle cose. Riescono, tramite la loro “follia”, a dare una forma visibile o comunque percepibile al loro inconscio.
Pensiamo a Duchamp che ha trasformato un pisciatoio in un opera d’arte, oppure al surrealismo che richiama il mondo dei sogni. Pensiamo a Picasso, dove la figura umana viene deformata e mostrata da più prospettive contemporaneamente.
La concezione finalistica della psicanalisi
In generale si potrebbero conciliare le posizioni di Freud e Jung concordando che per ambedue la concezione della psicanalisi è finalistica, e mira a ripristinare un equilibrio psichico.
La differenza sta nel fatto che per Freud i disturbi sono frutto di uno scompenso passato, che sebbene sia finito dal punto di vista temporale continua ad influire negativamente sulle azioni quotidiane.
Per Jung invece, il disturbo segna il mancamento di una prospettiva non raggiunta, è segno di una vocazione mancata. E proprio perché l’uomo avverte di non aver portato a compimento una parte del suo essere, egli ne soffre e sviluppa le sopracitate nevrosi.
La nevrosi va letta quindi in una prospettiva finalistica, la malattia ha una sua funzione di avvertimento ben precisa.
Lo scopo dell’analisi è l’individuazione della nostra vocazione e la sua realizzazione. Non è frutto di un trauma infantile, come sosteneva la visione freudiana.
Jung ritiene quindi che nella prima parte della vita l’educazione debba essere freudiana, perché bisogna costruire un “Io”, che necessita di seguire il modello dei genitori e di essere rafforzato. Successivamente, in fase adulta, si deve però tornare alle fonti inconsce dell’irrazionalità, perché solo lì è contenuta la nostra unicità.
La ragione tanto elogiata, resta frutto di un sistema di regole che non crea, da cui non nasce nulla.
Per creare, bisogna eccedere, e per capire il contenuto del proprio inconscio, non si deve temere l’immersione nelle sue profondità.
Concludo con un testo di Jung estratto dall’opera Il Libro Rosso al riguardo:
“Ogni cosa invecchia, ogni bellezza appassisce, ogni colore si raffredda, ogni luminosità si affievolisce, e ogni verità diventa stantia e banale.
Perché tutte queste cose hanno assunto una forma, e tutte le forme si logorano con l’usura del tempo; invecchiano, si ammalano, si frantumano e diventano polvere. A meno che non cambino.
Il compito è partorire ciò che è vecchio in un tempo nuovo.
La Genesi raffigura la presa di coscienza come la violazione di un tabù, come se mediante la conoscenza si oltrepassi empiamente un limite sacrosanto.
Io credo che la Genesi abbia ragione, perché ogni passo verso una maggiore consapevolezza è una specie di colpa di Prometeo: con la conoscenza si commette in certo modo un furto del fuoco degli Dei, si strappa cioè dalla sua connessione naturale qualcosa che era proprietà delle potenze inconsce, e lo si sottopone all’arbitrio della coscienza.
L’uomo che ha usurpato la nuova conoscenza subisce un mutamento o un ampliamento della sua coscienza, sicché questa diventa dissimile da quella del suo prossimo. Egli si è bensì elevato sopra ciò che al suo tempo è umano (“sarete come Dei”), ma così facendo si è anche allontanato dall’uomo.
Il tormento di questa solitudine è la vendetta degli Dei: egli non può più ritornare fra gli uomini. Come dice il mito, è incatenato alle alte e solitarie rocce del Caucaso, abbandonato dagli Dei e dagli uomini.
Non c’è presa di coscienza senza sofferenza.
Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce, ma portando alla coscienza l’oscurità interiore. Se cerchi una luce, cadrai anzitutto in un’oscurità ancor più profonda.
Il viaggio più difficile di un essere umano è quello che lo conduce dentro sé stesso alla scoperta di chi veramente egli è.
Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia.”
Consigli bibliografici
1. Schopenhauer A., Il mondo come volontà e rappresentazione, Bompiani
2. Freud S.,Introduzione alla psicoanalisi, Bollati Boringhieri
3. Freud S., L’io e l’Es, Bollati Boringhieri
4. Freud S., Il disagio della civilità e altri saggi, Bollati Boringhieri
5. Jung C.G., Il libro rosso, Bollati Boringhieri
6. Jung C.G., L’uomo e i suoi simboli, Longanesi
7. Galimberti U., Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli
8. Abbagnano N., Dizionario di filosofia, UTET